Cultura e territorio

“Doveroso difendere la memoria archeologica dell’Elba”

La riflessione di Alberto Zei: "Patrimonio saccheggiato, urge responsabilità condivisa"

“A seguito del recente articolo pubblicato su ElbaPress, in cui si evidenziava la crescente necessità di proteggere le ricchezze archeologiche dell’Isola d’Elba da furti e sparizioni sempre più frequenti, vi sono commenti di due lettori. Uno si esprime a favore del mantenimento della cosiddetta Nave di Cavoli nella sua attuale posizione, alle pendici del Monte Capanne, dove da sempre si trova. L’argomentazione principale risiede nell’intensità emotiva generata dall’inattesa scoperta di quell’antica scultura rupestre: un apparire improvviso, magico quasi, che ripaga — almeno finora — coloro (ma quanti?) che si avventurano in quei sentieri e in assenza di misure protettive formali, mai sfociate in un furti e si trovano improvvisamente  davanti a quella scultura. L’altro si riferiva alla sparizione della vasca rupestre di Seccheto, anch’essa finemente scolpita nel granito secondo modalità che richiamano l’arte rupestre , svanita nel nulla senza che alcuno abbia mai sporto denuncia. Il lettore ha riferito di non conoscerla, ma di ricordare un manufatto simile: un’altra vasca incisa nella roccia distaccata, questa volta nei pressi della spiaggia di Cavoli. Ecco, a questo punto, di fronte a una frequenza tanto inquietante di “perdite” sul territorio elbano, vale la pena soffermarsi con il dovuto approfondimento  su ciò che sta realmente accadendo”.

Un contesto antico da comprendere – Nel mondo antico — e in particolare presso le civiltà che popolarono l’Elba, come gli Italici e gli Etruschi e naturalmente i  Romani — la lavorazione del granito rivestiva non solo un ruolo pratico, ma anche una valenza simbolica e spirituale. La pietra dura e duratura era scelta per costruire templi, altari, sarcofagi, colonne, ma anche manufatti d’uso quotidiano che si connotavano di una bellezza funzionale. Non si trattava di “opere d’arte” nel senso moderno, bensì di oggetti significativi, capaci di fondere utilità e memoria, estetica e funzione.  Questa distinzione è fondamentale: la nostra sensibilità odierna tende a separare arte e artigianato, bellezza e utilità, contemplazione e pratica. Ma molti reperti elbani — vasche, bassorilievi, incisioni — sfuggono a queste classificazioni. Sono testimoni muti ma eloquenti di un tempo in cui il bello era parte integrante del necessario, e il necessario parte della dimensione sacra. Non è dunque arbitrario considerare manufatti come la Nave di Cavoli o le vasche scomparse come vere e proprie opere d’arte lasciate in loco a perpetuare la memoria. Che si tratti di arte rupestre, di simbologie di origine egizia o di forme arcaiche del culto delle acque, questi oggetti narrano, se si sa ascoltarli, storie complesse. E oggi, la loro sparizione non è solo un fatto materiale, ma una ferita inferta alla coscienza storica del territorio.

Il valore della documentazione – Il rischio più grande, oltre alla perdita fisica del reperto, è la cancellazione della sua esistenza dalla memoria collettiva. Senza una catalogazione dettagliata — che includa fotografie, misure, descrizione del contesto di rinvenimento e possibilmente analisi scientifiche — ogni furto si trasforma in un’amputazione irreparabile. Non solo non si può dimostrare il furto stesso, ma si perde anche la possibilità di restituire il senso e l’origine di quell’opera.  Se un bene non è mai stato ufficialmente inventariato, non esiste alcun “libro mastro” da cui risalire alla sua provenienza. La storia diventa così vulnerabile quanto una parete esposta alla pioggia: basta il tempo, e si sgretola.

L’Elba saccheggiata dai tesori sommersi ai manufatti scolpiti – Chi conosce l’Elba sa che non si tratta solo di vasche e sculture nascoste fra i massi. Esistono precedenti ben più eclatanti, a partire dal tesoro del Polluce, il piroscafo a ruote affondato a circa un miglio al largo di Capoliveri e trafugato, decenni fa, con un’operazione silenziosa ma devastante. Un recupero illecito che, secondo alcune stime, avrebbe sottratto al mare un bottino del valore di oltre stimato intorno a 750 miliardi di lire.
La tecnologia oggi consente di portare via anche ciò che un tempo era inaccessibile. Dunque nessuno si stupisca se, oltre ai fondali, iniziano a svuotarsi anche le pendici dei monti e le sommità delle fortezze.

Il caso emblematico della casermetta di Portoferraio – Fra le sparizioni più clamorose e paradossali figura quella della cosiddetta “Casa di Mago Chiò”, un edificio un tempo ben visibile sulla sommità della Fortezza di Santa Fine, a Portoferraio. Un’intera casermetta — centinaia di metri quadri — scomparsa senza traccia, senza crolli visibili, senza segnalazioni ufficiali di demolizione né atti di soprintendenza.  La casermetta era legata alla figura pittoresca e reale di Francesco Grassi, detto Mago Chiò, un personaggio eccentrico immortalato anche dal pittore Signorini, che lo ritrasse per le le imprese leggendarie: scalate a mani nude delle fortezze medicee e lorenesi di Portoferraio, a Bologna, della Torre degli Asinelli, a Firenze della Torre del Brunelleschi. Durante l’estate, si trasferiva nella casermetta per “attingere forza” — a suo dire — dall’energia vitale emanata dalle onde delle Ghiaie sottostanti.   Oggi, al posto dell’edificio, rimane un prato. Nessun resto, nessuna targa, nessuna memoria ufficiale. È mai possibile che un edificio di quella mole possa essere cancellato con tanta leggerezza?

Un crimine silenzioso – Se la scomparsa della casermetta non ha ancora fatto rumore, è forse perché — come nel caso della “Casa di Nazareth” — si spera che sia volata via per opera degli angeli. Ma qui, più che angeli, ci troviamo di fronte a demoni in carne e ossa, capaci di compiere lo scempio con strumenti, documenti omessi e forse anche qualche complice.  La perdita non è solo architettonica. Ogni elemento del paesaggio urbano, ogni manufatto storico, contribuisce a definire l’identità del luogo. Rimuoverlo senza traccia significa alterare la percezione collettiva di ciò che siamo stati — e quindi, inevitabilmente, anche di ciò che potremmo essere.

Urge una responsabilità condivisa – È urgente, anzi imprescindibile, che le istituzioni locali — Comuni, Enti culturali, Sopraintendenza — intraprendano un lavoro sistematico di censimento, documentazione e monitoraggio dell’intero patrimonio storico, archeologico e architettonico dell’Isola d’Elba. Nessun manufatto deve più essere considerato “minore”. Ogni “pietra” racconta una storia, e ogni storia, se sottratta, ci rende tutti più poveri.  La comunità elbana non può più permettersi di confidare nell’ onestà altrui mantenendo la tradizionale fiducia o voltandosi  dall’altra parte. I segnali ci sono, le sparizioni aumentano, il silenzio complice di troppi rischia di trasformare l’intera Isola in una terra svuotata della propria anima. Perché, in fin dei conti, ciò che viene sottratto non è solo un pezzo di granito, ma la possibilità stessa di riconoscerci nella nostra storia.

Alberto Zei

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