
Angelo Airò Farulla è scrittore, poeta e traduttore. È nato a Portoferraio nel 1981. Nel 2007 ha vinto il premio RAI per la radiofonia “Microfono di cristallo” con la trasmissione “Morte immaginaria di Vincenzo Bellini”. Tra il 2004 e il 2014 ha realizzato colonne sonore per il teatro, la danza e il video, lavorando in ambito elettroacustico. Ha composto un repertorio cameristico avvalendosi di tecniche antiche e avanguardistiche, insieme a trasposizioni di funzioni matematiche e processi chimico-fisici. Nel 2014, presso il Goldsmith College di Londra, è stata trasmessa la sonorizzazione di “Imago fermenti. Meditazione sulla generazione spontanea” per due pianoforti basata sull’esperimento Miller-Urey.
Sue opere musicali sono state presentate negli Stati Uniti, in Romania e in Marocco.
Tra le sue ultime pubblicazioni letterarie, il poema “L’aldilà del mare” (Fallone, 2023), “Tagliente esilio”, biografia illustrata del grafico e pittore futurista Gonni (deiMerangoli, 2023), “Contro la morte. Medium e spiritiste italiane tra Ottocento e Novecento” (Yume, 2024).
Ha tradotto opere di C. T. Svetonio, Helena P. Blavatsky, Arthur Conan Doyle, Rainer Maria Rilke, Everett Ruess, Rudyard Kipling, Albert Camus, William Shakespeare, Robert L. Stevenson, Cora L. V. Richmond.
Ha scritto di letteratura, arte e spiritismo su Poesia, Il Segnale, Pro Arte, Lo Scoglio, Mystery in History.
La Sua ultima opera è “L’aldilà del mare” (Fallone, 2023). Qual è stata l’urgenza espressiva che ha agito a monte del poema e che cosa può dirci sul titolo?
Diversamente dai miei testi precedenti, più introspettivi o concettuali, “L’aldilà del mare” nasce da una reazione a una circostanza esterna: lo sconvolgimento del litorale operato da una serie di onde anomale generate da una certa nave veloce. Questo il punto di partenza: il dispiacere nel vedere andare alla malora certi luoghi, nell’assistere al collasso delle scogliere… Ne è venuto fuori un poema apocalittico con una dimensione narrativa abbastanza accentuata; un poema che guarda a Joseph De Maistre e a H. P. Lovecraft, come a una certa cinematografia dell’orrore (“Non si deve profanare il sonno dei morti” del 1974, “Tentacoli” del 1977); ispirato dall’immagine della tomba del tuffatore e dai naufragi di migranti nel Mar Mediterraneo.
Partita da una critica alla civiltà contemporanea, “L’aldilà del mare” è comunque un’opera che allarga immediatamente l’orizzonte del suo discorso fino ad affrontare questioni come l’origine della vita o il significato della colpa. Nata come un’unica frase in prosa, estesa per decine e decine di pagine, è stata poi spezzata e macellata in modo da assumere la forma attuale. La prima stesura risale al 2017.
Per quanto riguarda il titolo, c’è l’indicazione di un piano ulteriore potenzialmente esistente. Probabilmente mi riferisco a tutto ciò che non è nello spazio, nel tempo, nella natura. Questa storia è narrata dopo la fine del mondo e parla dell’inizio. Seguendo le teorie del paleontologo americano McMenamin, nel corso dell’opera istituisco un parallelo tra la cacciata dal giardino dell’Eden e l’estinzione della fauna di Ediacara. Mi riferisco a probabili analogie tra il regno dei morti e gli abissi sottomarini.
La Sua è una scrittura perturbante, ma anche, a tratti, dall’ironia sottile. Bellissima la tessitura del linguaggio, godibili le atmosfere talvolta evanescenti, evidente la tendenza al dire e non dire. In quali di questi pregi di scrittura Si riconosce di più?
Mi riconosco in quanto scrive Mario Santagostini nella prefazione, riguardo alla «messa sulla pagina di una vena non solo palingenetica, ma proprio distruttiva». Airò Farulla, scrive Santagostini, «si serve delle parole essenzialmente per sfasciare e fracassare il mondo in cui vive, non per rappresentarlo».
Quando, come e perché ha iniziato a scrivere?
Esiste più di un inizio, ci sono state circostanze diverse e concomitanti; ma è una domanda, questa, alla quale non ho mai voluto rispondere.
Qual è l’identità di intellettuale che più La riflette? E quali sono le opere a cui tiene di più e perché?
Io non ho idee e non mi fido di chi ne ha. Sono soltanto un servo inutile.
Sulle opere alle quali tengo di più, se ho bene inteso la domanda e se il riferimento è a opere che possano in qualche modo essere in sintonia con la mia identità, cito il Vangelo, sopra ogni altra cosa. E sarebbe finita qui. A seguire, nomino comunque “Walden” di H. D. Thoreau e “Cavalcare la tigre” di Julius Evola.
Leggendo i Suoi versi la prima impressione è stata quella di una scrittura che affonda dentro la vita e non ha paura di dire. In che rapporto sono vita e scrittura? Quale viene prima (se davvero esiste una preminenza dell’una sull’altra)?
La letteratura – per lo meno quella occidentale – ha testimoniato spesso una spaccatura tra vita e scrittura, anche quando l’opera letteraria sembra autoannientarsi per inseguire il vitalismo degli istinti. È una suggestione della quale anch’io sono stato e in parte sono ancora vittima. La vita, nonostante tutto, non smette mai di essere immaginaria, ovvero romanzata, preoccupata, anticipata, reincarnata. Ma forse non c’è niente di lucido nell’universo.
Ogni autore scrive per tutta la vita la stessa opera. Ammesso che sia vero o comunque condivisibile, che cosa muove la Sua scrittura? C’è un tema, un filo conduttore o uno stato d’animo che ispira la Sua scrittura e che non manca mai in nessuna delle Sue opere?
Da una parte ci sono io, ovvero le molteplici esistenze che convergono nella mia persona e la rendono una, ciò che preme attraverso di me e sembra provenire da un’altra dimensione, una sorta di presagio onnipresente.
Poi c’è tutto ciò che non è umano.
Da un altro lato ancora, c’è la valenza della croce.
Ciò che unisce questi tre punti in una costellazione è forse il mio mancare continuamente nell’opera. Nostro è l’intento, ma l’esito no. Però potrei anche sbagliarmi. La mia è una scrittura asintotica, che contiene già in sé stessa, come premessa fondamentale, o meglio fondativa, il fallimento. Io sono una persona metafisica e un poeta metapsichico.
Ezra Pound diceva che «i poeti che non s’interessano alla musica sono, o diventano, cattivi poeti». Qual è il Suo rapporto con la musica e quanto la Sua poesia è influenzata da essa?
Le influenze sono per loro natura occulte. Parlando a livello esterno, non credo che la mia opera letteraria sia “influenzata” dalla musica, così come non credo che la mia opera musicale lo sia stata dalla letteratura. Scrittura e composizione musicale scorrono per me su due binari paralleli, in temporalità diverse. Probabilmente si nutrono alle medesime fonti, delle medesime sostanze, la prima in particolar modo di me stesso. Ma i risultati sono molto diversi.
Montale sosteneva che «La poesia è un mostro: è musica fatta con parole e persino con idee: nasce come nasce, da un’intonazione iniziale che non si può prevedere prima che nasca il primo verso». Quando crea in poesia come procede? In altre parole, come si articola il Suo processo creativo?
Non lo so, non credo di avere un metodo. Quasi sempre lavoro a più cose contemporaneamente. Scrivo in continuazione, in una dimensione tra l’oralità e l’automatismo psichico. Posso poi scrivere a comando, per opportunità, per provare a ottenere determinate cose. Quasi mai per ispirazione. Ma la scrittura, in fin dei conti, è soltanto un appoggio, come direbbero i parapsicologi.
Che cosa rappresenta per Lei la scrittura?
A parte quello che ho appena detto, non rappresenta niente. È qualcosa di vuoto, di non significante, di elementare, per quanto sembri e forse sia il contrario. È un niente che ha consumato buona parte della mia vita.
Che cosa é per Lei la poesia? Una definizione.
Non lo so. Mi accontento della definizione data dal dizionario.
Che rapporto c’è oggi tra poesia e società?
La tradizione più recente, a differenza di quella antica, richiederebbe un rapporto basato sulla reciproca volontà di distruzione. Probabilmente ancora oggi è lo stesso, con un altro grado di intensità, secondo il momento storico.
Quali sono gli autori e le letture che hanno maggiormente condizionato e influenzato la Sua scrittura?
È lo stesso discorso che facevo prima a proposito della musica: le sorgenti sono sempre sotterranee. Potrei dire quello che io credo che sia stato, ma preferisco non offrire chiavi di interpretazione attraverso la somiglianza. Farò soltanto un nome, scoperto di recente, con il quale ho riscontrato notevoli affinità, quello di Nella Doria Cambon.
Che rapporto hai con gli altri scrittori, di oggi e di ieri?
Sia per i vivi che per i morti andrebbe visto caso per caso.
Ha ancora senso parlare di generi nel caso della letteratura contemporanea?
Non saprei.
Crede nell’utilità dei corsi di scrittura creativa? Prima del Suo esordio ha seguito un corso del genere? Ha trovato veri e propri maestri all’interno di tali corsi?
Quando ho cominciato a scrivere, in Italia non esisteva niente del genere, o almeno credo. In ogni caso io ho preso quello che dovevo prendere dai libri, dalle antologie, dai testi di critica, imparando le poesie a memoria, battendo a macchina i miei strampalati. E poi dalla natura e da altre aspirazioni più essenziali che non dico. Il fatto essenziale, però, è che fossi da solo, con i morti.
Non voglio istituire nessuna scala di valore, ma posso dire che i cosiddetti “autori” contemporanei mi ricordano gli orologi sciolti di Salvator Dalì: per stare in piedi e assumere una forma hanno bisogno delle stampelle biforcute dei corsi, delle agenzie, degli editor e dei ghostwriter.
Comunque sia, l’intelligenza artificiale finirà ciò che è già stato iniziato. Chi vorrà dare testimonianza della propria umanità, e quindi continuare a fare letteratura, d’ora in avanti potrà farlo soltanto nei passi di difficile interpretazione, nella perdita di senso, nelle scritture disastrate. Rivolgendosi a tutto ciò che è stato escluso. Ricorrendo a certe artificiosità dell’intelligenza. Distruggendo, per scrivere ancora, ciò che qualifica un testo in quanto tale. L’umanesimo dovrà negare l’umano, perché l’umano sarà imitazione di macchina, mentre il disumano, almeno per un po’, non farà parte dell’algoritmo. Ma non so quale possa essere il reale valore di una simile testimonianza. Non ho mai visto molta differenza tra reazione e rivoluzione. Il giro è comunque a vuoto, e anche l’umanità è destinata a passare.
Crede che il suo nome rimarrà e sarà citata in futuro tra i maestri del suo genere e della sua tipologia letteraria? Perché?
Credo di sapere che la mia opera finirà con me. Non mi sembra possa avere una durata ulteriore. Ma non c’è niente di importante in questo. Tutto quello che appartiene a questo livello di esistenza sembra destinato a finire, e che lo faccia prima o dopo sembra non avere alcuna importanza. Attualmente la morte sembra essere il nostro primo orizzonte. Talvolta la vita mi appare come un’auto sopravvalutazione che l’esistente fa di sé stesso. Tra l’altro, io non ho mai avuto e probabilmente non avrò mai un pubblico di lettori, quindi per me sarà forse più veloce il passaggio. Nessuno quaggiù mi ricorderà. Comunque, più che quella del mio nome mi interessa l’eventuale sopravvivenza della mia anima, la destinazione sovrannaturale della mia esistenza, l’imminente disgregazione della mia identità, in quali nuove composizioni si legheranno gli atomi del mio corpo. Il nome è solo un sigillo temporaneo.
Per chiudere, una domanda banale ma che non si può non fare a ogni scrittore che si rispetti: come e quando ha capito che la scrittura La chiamasse a sé?
In generale, se si parla di vocazione, non è la scrittura che chiama a sé, ma il Signore; e allora, se succede, può avvenire in mille e più di mille modi.
A. Anconetani Lioveri e M. O. Triscari