C’era una volta, poi non c’è più… a Longone

di Fabrizio Grazioso

Alle sei del mattino la tovaglia in fiandra già splendeva sul tavolo di sala. Rossa, profumata di legno e di pane. Tra piatti d’un corredo conquistato vent’anni prima, tra bicchieri colorati e frutta secca. C’era un presepe in quella stanza: due casette di sughero ‘aronzicate’ e perse in un letto di muschio, cinque statuette di gesso tramandate di padre in figlio e custodite nel reliquiario assieme a fotografie e lettere d’amore e di guerra. Più la grotta. E accanto a un’improbabile Betlemme cinta da neve, l’alberello con tre doni. Il latte, a colazione, pareva più buono. Anche la messa, quel giorno, aveva un sapore diverso: candelabri d’ogni altezza, a decine, disposti in fila su quell’altare in marmo. Rutilanti, sfavillanti. L’armonium suonava. ‘Puer natus est nobis’. La nube d’incenso avvolse il Bambino. Si confuse al fumo gelato a mezz’aria dei camini. A casa tutto era pronto per la favola antica, per il rito eterno, genuino della semplicità. Una semplicità vivida e guizzante. Quella che servirebbe oggi dove tutto è apparenza, dove tutto va messo in vetrina. Dell’orgoglio, quel giorno, se ne fece a meno. Chi afferrò si scrisse parole belle. Di pace. Per ritrovarsi, come un tempo. E poi dritti fino a sera, di nuovo assieme, tra ambi e quaterne. Aleatico, ‘schiacciunta’ e mandarini. Il fuoco, la tivvù spenta e il solletico di una radio senza domani che cantava di quei “mille violini suonati dal vento e tutti i colori dell’arcobaleno”.

*Auguri, così!

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