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Tu mi stai a cuore: Elbabook, intervista a Daniela Lucangeli

a cura di Mario Barberi

Da Don Milani ai nuovi paradigmi nello studio delle emozioni: questo il tema della conferenza che Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello Sviluppo all’Università di Padova tra le più influenti voci nel campo dell’educazione, ha tenuto la sera di Giovedì 18 Luglio 2024 all’interno dell’Elba Book Festival (EBF), in dialogo con Roberta Bergamaschi.

A partire dall’attenzione, tema dell’edizione 2024 dell’EBF, l’autrice ha esplorato la rilevanza e l’attualità del pensiero educativo di Don Lorenzo Milani a un secolo dalla sua nascita: «Il suo principio dell’I care sposta l’asse educativo da un approccio paternalistico (io mi prendo cura di te) a uno più empatico e centrato sull’educando (tu mi stai a cuore)», sottolinea Lucangeli. «Ciò influenza positivamente il processo formativo mettendo l’allievo al centro, un cambiamento di prospettiva essenziale per favorire un’educazione inclusiva e rispondente alle esigenze individuali degli studenti».

L’attenzione è d’altronde tema centrale negli studi di Daniela Lucangeli sui processi di apprendimento e sulle nuove sfide educative. Il suo filone di indagine, approfondito in collaborazione con il suo gruppo di ricerca dell’Università degli Studi di Padova, ha portato alla teorizzazione della “warm cognition” (apprendimento affettuoso) che integra le emozioni nei processi cognitivi e propone nuove modalità didattiche: «Le neuroscienze dimostrano che l’attenzione e le emozioni sono strettamente connesse e influenzano significativamente l’apprendimento e la memoria», annota la psicologa. «Lo stato emotivo del discente può dunque facilitare o ostacolare i processi di apprendimento. Per gli educatori è fondamentale tenerne conto».

Nel corso della sua carriera Lucangeli si è occupata di logica e neuroscienze, operando nell’ambito delle strategie di supporto all’apprendimento e ai disturbi del neurosviluppo. È presidentessa dell’Associazione Nazionale per gli Insegnanti Specializzati (CNIS) e della comunità di ricercatori e specialisti Mind4Children ed è membro dell’International Accademy for Research in Learning Disabilities (IARLD).

Tra i suoi numerosi libri e contributi scientifici “Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere.” (Erickson, Trento, 2019), “A mente accesa. Crescere e far crescere.” (Mondadori, Milano, 2020), “Il corpo è docente. Sguardo, ascolto, contatto: la comunicazione non verbale a scuola.” (Erickson, Trento, 2021), “La mente che sente. A tu per tu: dialogando in vicinanza, nonostante tutto.” (Erickson, Trento, 2021), “Se sbagli non fa niente. Il segreto delle carezze emotive che aiutano i nostri figli ad apprendere.” (De Agostini, Novara, 2023).

 

Ha inoltre approfondito il pensiero di Don Milani in “Il tempo del Noi. Giganti del pensiero che ci hanno indicato la via.” (Mondadori, Milano, 2022). Partendo dal presupposto che non esistiamo se non nella relazione, Lucangeli intesse un dialogo con grandi “giganti del pensiero” che hanno rivoluzionato gli approcci educativi – accanto a Lorenzo Milani anche Maria Montessori, Anna Freud, Friedrich Fröbel – affrontando questioni relative alla pace, ai talenti e alla vulnerabilità.

Sulla gestione delle emozioni nella società contemporanea Lucangeli ha più volte evidenziato, proprio rispetto all’essere vulnerabili, la tendenza generalizzata ad attivare meccanismi di evitamento delle esperienze dolorose: «È importante saper accettare anche il fallimento in quanto parte integrante dello sviluppo umano», ricorda Daniela Lucangeli. «Essere capaci di affrontare una sofferenza incoraggia i processi di resilienza e autoefficacia».

 

 

«Educare la mente senza educare il cuore significa non educare affatto», lo sosteneva già Aristotele. Oggi è dimostrato dalle neuroscienze, «nessun atto della nostra vita cognitiva è slegato dalle emozioni che proviamo», come scrive nel Suo libro “Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere.” (Erickson, Trento, 2019). Quanta coscienza c’è, tra le persone e nella società civile, di questo legame tra cognizione ed emozione, non solo a scuola e nei contesti più strutturati di apprendimento, ma tra la gente comune?

Se ci fosse la consapevolezza di quanto il nostro cervello sia un organo senziente, capace di prendere decisioni in base a ciò che sente – paura, rabbia, gioia, desiderio -, non ci troveremmo in questa situazione, giovani e adulti, grandi e piccoli tutti. Abbiamo sottovalutato tantissimo questo processo di forza che guida come un vettore spingendo la direzione della nostra esistenza. Mi riferisco alla componente più antica del sistema limbico, la parte subcorticale più profonda che ci permette di prendere decisioni per il futuro: è in questo dialogo interno che viene dato l’avvertimento, come un segnale che procede a partire dalla corteccia associativa situata sul lobo frontale, e che ci porta a scappare da qualcosa che duole, che provoca paura, ansia ed emozioni di allerta, oppure ci spinge a cercare ancora perché quel qualcosa ci fa bene (ecco allora le sensazioni di gioia, solidarietà, partecipazione).

Quindi, come quando abbiamo freddo ci copriamo, o quando abbiamo sete beviamo perché le nostre cortecce ci danno il segnale di questo bisogno, così agiscono le nostre emozioni. Esse sono il segnale antico che ci comunica il bisogno di gioia o di quiete, spesso attraverso le loro antagoniste, ovvero la tristezza o l’ansia.

 

A proposito di allerta: una delle prime cause di malessere nel sistema scolastico italiano è il senso di inadeguatezza dovuto all’eccessivo carico cognitivo che, conseguenza dell’obbligo di memorizzare troppe regole e nozioni anziché far proprie le conoscenze, a sua volta innesca una sensazione di disagio provocato da emozioni di continuo alert, noia e senso di colpa. Quello scolastico attuale è un sistema passivizzante che riflette la società. Proprio perché la scuola tende ad essere uno specchio della società, alert, noia, senso di colpa, inadeguatezza e disagio sono emozioni ricorrenti anche tra gli adulti di oggi. Come affrontarle?

Un comportamento che mettiamo costantemente in atto è il giudizio, che costituisce l’attivatore di tutte le reazioni di alert, noia, senso di colpa. Questo perché essere giudicati è una componente educativa che soprattutto il sistema scolastico, così com’è organizzato, adopera con grande frequenza: il giudizio a scuola è sì di verifica e valutazione, ma anche di riconoscimento degli uni con gli altri. Non è quindi, nel sistema scolastico odierno, soltanto un giudizio sulla qualità della crescita del ragazzo nella sua competenza, ma anche un giudizio complessivo sulla persona. A volte ai miei studenti spiego che invece della parola “valutazione” dovrebbero usare, come elemento per comprendere che cosa accade alla mente, la parola che è il suo opposto ovvero la “svalutazione”. Quindi domando loro «Che cosa provate quando vi sentite svalutati?». Emerge allora che quando siamo svalutati ci sentiamo incapaci, arrabbiati, avvertiamo un senso di ingiustizia, la sensazione di non poterne più, ci viene da scappare. Ne deduciamo che dunque all’opposto, quando siamo “valutati”, dovremmo sentirci pieni di sicurezza, forza, capacità, sostegno, supporto. E invece, dal sistema, veniamo costantemente valutati con giudizio, cosa che attiva nel cervello le emozioni della svalutazione: la scuola allora non ti sta valutando, ti sta svalutando. Ecco perché il sistema limbico difende le cortecce associative e ci spinge alla fuga e all’evasione.

 

A proposito di giudizio e auto-giudizio, c’è ancora molto focus sull’errore. A riguardo mi ha colpito molto la storia di Mattia, il bambino di 8 anni e mezzo di cui racconta in uno dei Suoi libri, e della sua poesia “Piove”, da cui trapela dell’ottimo potenziale nonostante i molti errori di ortografia. Così, Lei scrive, insieme avete «dichiarato guerra ai suoi errori». Mattia ha imparato l’arte della compensazione dell’errore. Questo perché il nostro cervello è plastico, sa adattarsi agli ostacoli e trovare soluzioni, sa affrontare l’errore e superarlo. Che cosa insegna questa storia e che cosa pensa Lei degli errori?

La poesia recita così: «Ci vorrebbe una pioggia di pace / ma tanta tanta pioggia / che piovesse ovunque / nel mondo / contemporaneamente / insieme / dappertutto / senza smettere / fino a che è mattina / e pace c’è». Mattia scrive questa poesia a 8 anni e mezzo, una poesia che ha 48 errori fonologici diagnosticabili come disturbo specifico dell’apprendimento. Quando però ho letto questa poesia ho chiesto all’insegnante di avvertire i genitori e di farli venire da me. Questo perché eravamo di fronte ad un bambino ad altissimo potenziale cognitivo, una vera e propria giftedness [plusdotazione cognitiva]. Era quindi necessario un cambio di stratagemma educativo.

Questo, riassumendo, per dire che l’errore non è una colpa, non è una patologia. L’errore è il più potente segnale che gli organismi viventi della nostra specie, in milioni di anni evolutivi, hanno sviluppato per indicare dove c’è bisogno di aiuto. Ecco perché l’errore, all’interno del processo di educazione tra magister e cucciolo che sta crescendo, non è un meccanismo da colpevolizzare ma da “modulare”. D’altronde “errore” etimologicamente significa “errare”, quindi “muoversi”. E non è propriamente sinonimo di “sbaglio”, che comunque si lega al termine “abbagliare”. Come a dire che la troppa informazione rischia di diventare “abbagliante” impedendo di vedere dove poter fare il passo per muovermi.

Dobbiamo quindi leggere qualitativamente gli errori come segnali dove c’è bisogno di madre, padre, magister e, in generale, di adulti maturi.

 

Altro tema ricorrente nei Suoi libri è il contagio emotivo: stare con persone arrabbiate ci innervosisce, stare con persone allegre ci rallegra. Quanto è importante l’autoconsapevolezza emotiva, non solo per il singolo individuo ma anche per le implicazioni sociali che comporta?

Siamo una specie sociale, siamo connessi gli uni altri. La connessione ha profondissime radici non psicologiche: la prima forma di connessione di cui abbiamo certezza è la sintonizzazione dei pulser cardiaci a 35 giorni dal concepimento, quando il battito cardiaco del feto si sintonizza con quello della madre. Siamo dunque organismi viventi sintonizzati: è sintonizzato il nostro respiro, lo è il nostro battito del cuore, lo è quello che si chiama l’effetto mirror, cioè “di rispecchiamento”. La costruzione dell’immagine che abbiamo di noi dipende da quest’effetto mirror.

Gli scienziati oggi ci dicono che siamo un grande organismo interconnesso, che addirittura non abbiamo un cervello isolato, ma i nostri radar sono tutti sintonizzati. I fisici che si occupano di fisica quantistica stanno dimostrando che siamo strutture di uno stesso sistema, come un “nucleo-famiglia” o un “nucleo-paese” dove gli elementi che lo compongono si sintonizzano molto più profondamente di come riteniamo quando parliamo semplicemente di “empatia”.

Comprendere questo, ad alcuni di noi che si occupano di scienza, ha fatto venire il grande desiderio di quello che abbiamo chiamato “scienza servizievole”: camminiamo migliaia di chilometri, portiamo nuovi paradigmi alle persone, ne parliamo, dialoghiamo. Non per divulgare la scienza ma per connettere. È un modo per vedersi e per vedere come con gli altri ci si può trasformare in risorse o, altrimenti, in ostacoli. A maggior ragione con i nostri figli la scelta deve essere fatta con consapevolezza, altrimenti siamo solo in una situazione che implica un urlo collettivo.

 

Molte riflessioni che Lei fa rispetto ai processi di apprendimento sono interessanti anche per l’adulto e nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, sulla relazione tra azione e obiettivo del soggetto, tra fine intrinseco e obiettivo estrinseco, scrive in “Il tempo del Noi” (Mondadori, Milano, 2022): «Il grande motore delle nostre scelte è il fine, l’orizzonte, l’obiettivo cui tendiamo. Non agiamo insomma perché siamo spinti da qualcosa, ma perché da qualcosa siamo attratti». Lo chiama “orientamento motivazionale”. Perché è importante, nelle proprie azioni e decisioni circa il futuro, essere mossi da motivi intrinseci e riflettere su quale sia il movente delle nostre scelte?

Uno dei grandi padri delle scienze dello sviluppo, Jean Piaget, ci aveva mostrato per primo, intorno agli anni ‘60, che i bambini, quando si domandano il perché delle cose, non rispondono con una causa efficiente o meccanica (= che cosa ha determinato ciò che accade), ma guardano al perché come fine o scopo. Ad esempio: perché piove? perché i fiori hanno sete; perché ci sono le maestre? perché i bambini ne hanno bisogno. Quindi la causalità, nell’intelligenza umana, nasce per rispondere allo scopo.

Oggi sappiamo che tutto il meccanismo vivente di ogni organismo è regolato dalle omeostasi delle memorie e che le memorie sono tracce di segnale di ciò che ci è accaduto ma anche di ciò che ci dovrà accadere. Una memoria speciale si chiama “memoria prospettica”, cioè la memoria di futuro. Per esempio mi dovrò ricordare dove ho lasciato la macchina quando, dopo la conferenza, stasera uscirò; oppure mi devo ricordare gli impegni di domani, dove devo andare: queste sono memorie di futuro. Tutto questo ha portato gli scienziati a studiare che cosa determina il presente: si è compreso che esso non è il mero frutto dei passi fatti ma anche dei passi che mancano da fare. Esiste quindi una funzione mentale straordinaria che il è desiderare: questa implica un processo di cambiamento che, come un fulcro, è in grado di riportare equilibrio sugli effetti a volte troppo pesanti del passato. Chiama il futuro nel presente verso un cambio di sistema. Allora è importante che una madre, un padre, un docente lo riconoscano e lo vedano. È importante che un essere umano sappia che, oltre a tutti i segni delle ferite e delle cicatrici del passato, ha il potenziale del futuro.

 

Proprio riguardo al rapporto tra presente e futuro, nel 2023 si è celebrato il centenario dalla nascita di Don Lorenzo Milani, a cui ha dedicato pregnanti riflessioni in “Il tempo del Noi”. Che cosa può ancora dirci Don Milani? Che cosa il suo pensiero, ancora oggi molto attuale e rivoluzionario, può insegnare alla nostra scuola e ai nostri docenti? Quali sono le barriere che la scuola di oggi, anche per l’eccesso di burocratizzazione, pone all’effettiva attuazione delle teorie di Don Milani?

Per me Don Milani è stato sicuramente una figura con un carisma di visionarietà, tanto che il suo pensiero non appartiene al passato. Anzi, come accade in tutti i processi dei grandi giganti del pensiero, forse non è stato ancora raggiunto. Quello che di questo gigante mi ha colpito è un errore volontario che lui ha fatto, cioè quello di chi è cresciuto correndo “tra le gambe” di Joyce. A casa sua ha frequentato la letteratura inglese e le qualità della lingua inglese talmente tanto, e talmente tanto presto, da essere capace di comprenderne tutte le sfumature. Perché allora traduce l’I care con “tu mi stai a cuore” invece di “io ho cura di te” o “io ti curo”, cambiano il soggetto e il complemento. In “io ti curo” io sono soggetto e tu sei oggetto della mia cura, vuol dire che tu hai una malattia, una qualità da aggiustare. Invece in “tu mi stai a cuore” tu sei soggetto e io sono complemento di termine: nel rispecchiamento a me faccio quello che posso per darti la tua possibilità migliore. Senza sostituirti ma senza neanche abbandonare ciò che spetta a me.

In altri termini, il suo principio dell’I care sposta l’asse educativo da un approccio paternalistico (io mi prendo cura di te) a uno più empatico e centrato sull’educando (tu mi stai a cuore). Ciò influenza positivamente il processo formativo mettendo l’allievo al centro, un cambiamento di prospettiva essenziale per favorire un’educazione inclusiva e rispondente alle esigenze individuali degli studenti.

 

 

Mario Barberi

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