Settimo e ultimo incontro per la IV edizione della rassegna letteraria Autorə in Vantina, organizzata dal Comune di Capoliveri e dalla libreria MardiLibri di Portoferraio, in collaborazione con la Pro loco di Capoliveri.
Accompagnato dal professor Marco Ambra, mercoledì 4 settembre 2024, Roberto Ciccarelli, filosofo e giornalista de il manifesto, presenterà il suo “L’odio dei poveri” (Ponte alle Grazie, 2023). La presentazione si terrà, come di consueto, in piazza La Vantina a Capoliveri alle ore 21:30.
Tema centrale della cupa e martellante trattazione di Ciccarelli è la figura del “povero” nelle società occidentali del XXI secolo; da un lato visto come il vergognoso residuo del culto del lavoro, dall’altro come un costrutto tecnico-amministrativo elaborato dal sistema neoliberista al fine di governare le masse eterogenee di popolazione che non appaiono conformi al modello del lavoratore bianco borghese.
Lontani, al di là di ogni giudizio di valore, appaiono i tempi nei quali l’idea del lavoro come essenza dell’essere umano portava i tratti di «oscuro castigo» demoniaco, la necessità del quale era vista come una delle conseguenze principali del peccato originale. (Ovvero: si lavora per scontare una colpa, non per elevarsi.) In una società che ha assimilato con avidità gli orientamenti protestanti, e che si è costruita attorno all’idea del «lavoro-divinità», i termini sono ormai ribaltati: non è più il lavoro, ma la povertà – ovvero la mancanza di lavoro – a esser vista come una colpa e, soprattutto, come una minaccia per la sicurezza del ricco, ovvero «di chi si sente padrone del mondo», di colui che ha nella sua stessa ricchezza la testimonianza dell’esser stato toccato dalla grazia divina.
Come in una vanitas barocca, il “povero” mostra infatti al lavoratore benestante la sua scheletrica metà, quello che potrebbe tornare a essere o che potrebbe diventare da un momento all’altro. Gettando poi impudentemente il discredito sulle basi della moderna società (come la fede nella modernità e nel progresso, o nell’efficacia del riformismo) l’esistenza del “povero” è ancor più intollerabile.
Ma il capitalismo, si sa, è capace di nutrirsi di tutto, anche dei suoi stessi residui, degli amici e dei nemici. Ed è così che il “povero” diventa occasione di guadagno attraverso l’appalto di «giganteschi apparati dell’umiliazione pubblica» dedicati alla somministrazione di sussidi. Risucchiati dai percorsi riabilitativi dei centri per l’impiego o delle agenzie interinali, i “poveri devono allora sottoscrivere un patto che li impegna in una perpetua, vana ricerca di un lavoro inesistente; e accettare di sottostare a un progetto di ricostruzione dell’essere umano condotto in base alle pretese elettorali e morali della maggioranza di turno, come a quelle produttive ed economiche dettate dall’andamento del mercato.
Come nella favola di Pinocchio, dove il burattino ribelle alla fine diventa un bambino, così il “povero” diventerà un cittadino modello dopo essere stato riprogrammato e ingegnerizzato dalla macchina pubblica del nuovo Stato sociale. Illusi dalla truffa dell’occupabilità, vittime di una formazione permanente, i “poveri” che si rivolgono alle «politiche attive del lavoro» vengono così analizzati, profilati, schedati, giudicati, certificati, premiati o puniti; costretti a diventare il curriculum di loro stessi. Affidata la redenzione del male che li affligge al mercato, il loro destino è quello di trasformarsi negli imprenditori «delle proprie sciagure». Eppure, scrive Ciccarelli, provando a spezzare il paradigma attuale, «la povertà non è solo mancanza o privazione, è un’altra forma della ricchezza irriducibile all’accumulazione di valori economici scambiabili sul mercato, al diritto costituito o alla statistica». Una posizione insurrezionalista, la sua, che provoca un timore in grado di far «tremare la città degli uomini: liberare il desiderio di sganciare il reddito dal lavoro che c’è e soprattutto da quello che non
c’è». Nella sua analisi, Ciccarelli accenna a una possibile ridefinizione del sistema che dovrebbe essere essenzialmente politica, volta a riconoscere l’esistenza di una forza lavoro di base «che produce tutti i valori di cui ha bisogno una vita», al di là del lavoro e delle catene di montaggio. Una ridefinizione della quale è lui stesso il primo a segnalare l’attuale impraticabilità.
Angelo Airò Farulla