In occasione della decima edizione di Elba Book Festival, svoltasi dal 16 al 19 luglio 2024 in Rio nell’Elba, abbiamo intervistato l’ospite d’eccezione Carlo Lucarelli. Giallista, giornalista, conduttore televisivo e radiofonico, autore di più di 20 romanzi thriller e noir, Lucarelli non necessita di presentazioni. Come molti dei suoi personaggi, alcuni dei quali presto divenuti protagonisti di famose serie televisive e trasposizioni cinematografiche: ricordiamo l’ispettore Coliandro, celeberrimo protagonista dell’omonima serie tv, il commissario De Luca, anch’esso protagonista di un fortunato telefilm, e l’ispettrice Grazia Negro, al centro del romanzo “Almost blue” trasposto per il grande schermo da Alex Infascelli.
Colonialismo in Africa, regime fascista, anni di piombo e trattativa Stato-mafia sono tra le ambientazioni storiche più frequenti della sua narrativa. Nel suo ultimo romanzo, “Bell’abissina” (Mondadori, Milano, 2022), lo scrittore torna agli esordi con il commissario Marino, agente al servizio del regime mussoliniano ma segretamente e attivamente antifascista. Un vero e proprio noir storico ad altissima intensità, un pastiche di generi narrativi che passa dall’inchiesta poliziesca, al thriller e al romanzo sociale.
Di Carlo Lucarelli colpiscono subito l’apparente calma, il fare quieto, ma soprattutto l’assoluta disponibilità e generosità. Inesauribile la sua curiosità intellettuale, che lo spinge ad approfondire qualsiasi spunto di riflessione, come grandissima l’umiltà nel rispondere in modo preciso e dettagliato a ogni domanda che gli è stata posta. Un narratore vero, anche nella conversazione.
Di seguito la nostra intervista al grande maestro del noir mediterraneo (già apparsa il 5 Agosto 2024 nell’ezine culturale “Morel – Voci dall’Isola”) in cui si parlerà di letteratura e romanzo di genere, racconto del male e misteri italiani. Di luci e ombre della storia e dell’animo umano.
Giallo o blu? Qual è dunque il colore del crimine? Ricollegandoci al titolo dell’intervista, nella Sua opera ritorna sovente il colore blu. Valgano ad esempio alcuni semplici titoli quali “Almost Blue”, “Mistero in blu” e “Blu notte”. In “Almost blue” [Einaudi, Torino, 1997], poi, il personaggio di Simone Martini dice: «Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire. L’azzurro, per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali e le volpi sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immaginarlo ma so che è il colore del nulla, del niente, del vuoto. Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono colori che per me significano qualcosa per l’idea che contengono. Per il rumore dell’idea che contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la b, invece, sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo. Ecco, ad esempio, per me una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi. Ma se fosse veramente bella, allora avrebbe i capelli blu.». Ci spiega il significato che ha per Lei e nei Suoi libri questo colore?
Devo dire che il blu è entrato quasi per caso nella mia opera, proprio nel romanzo “Almost blue” che avete citato, con l’obiettivo di proiettare la storia che mi accingevo a raccontare all’interno di una dimensione leggermente blues, malinconica; solo successivamente il colore in questione ha acquisito un significato specifico. I colori tradizionalmente associati alle storie che noi autori dell’inquietudine scriviamo sono, convenzionalmente, il rosso (che è il colore del sangue e dell’omicidio e dunque il simbolo della parte più emotiva del genere), poi il giallo (colore del mistero e simbolo della parte più razionale della storia e dunque dei meccanismi di indagine e risoluzione del mistero) e infine il nero (il noir, appunto, che è il colore correlato all’aspetto più cupo del racconto di fatti delittuosi). A me piace però che nelle mie storie ci sia anche una sfumatura più triste, una vena più intima, un’atmosfera più intimistica. E questa atmosfera io l’associo al colore blu. Al momento poi del mio impegno con la Rai per la realizzazione di una trasmissione sui grandi misteri italiani e sui casi di cronaca nera irrisolti più eclatanti, la decisione di intitolarla “Mistero in blu” scaturì dalla necessità di risolvere, o almeno ridurre, il generale senso di piattezza cromatica della scenografia dovuta alla particolare condizione luministica presente nello studio di registrazione. Tale piattezza era dovuta all’omogeneità tra lo sfondo nero dell’ambiente e la mia abitudine di vestire sempre in nero, ma la proiezione di un faro di colore blu alle mie spalle conferì alle riprese la tipica atmosfera per cui il programma finì per distinguersi. Così, per caso, il blu è entrato a far parte dei miei libri e della mia opera. E poi anche della mia vita.
Il pubblico La conosce in larga parte per il Suo lavoro televisivo. Trasmissioni come “Mistero in blu” poi divenuto “Blu notte” raggiungono alti livelli di share. Perché la cronaca nera e i misteri irrisolti attirano un così ampio pubblico?
Il motivo principale è che ci fanno paura. E la paura è un sentimento fortissimo che non può lasciarci indifferenti. Se reagiamo bene, essa diventa uno strumento di conoscenza. Se reagiamo male, e ci chiudiamo, allora diventa qualcosa di negativo. Il primo effetto è guardare alla fonte della paura, come avviene nei film, in cui l’attenzione del personaggio va sempre nella direzione dell’evento improvviso e inaspettato, anche se impercettibile. Tutto quello che ci spaventa ci attrae, non possiamo ignorarlo perché ci riguarda da vicino e potrebbe capitare anche a noi. Tuttavia chi ce lo racconta segue criteri e canoni che permettono il distacco, come nei programmi di cronaca nera e true-crime, nei libri e nei film, e questo fa sì che la paura risulti del tutto gestibile e dunque fruibile agevolmente.
C’è poi una differenza da non trascurare tra paura ‘attivante’ e paura ‘inibente’: entrambe producono un effetto di condizionamento della nostra capacità di reagire, ma se la prima ci spinge a un atteggiamento costruttivo, ed è dunque positiva, la seconda si riduce a un’attitudine morbosa. Se ad esempio ci troviamo in autostrada e ci accade di imbatterci in un incidente, è legittimo e umano lanciare un’occhiata per capire se sia successo qualcosa di grave: se la curiosità ci spinge a far rivedere i freni per evitare lo stesso incidente allora è una reazione funzionale, se invece è fine a se stessa e per guardare si rischia di schiantarsi a propria volta, allora è sbagliata.
La narrazione del male è un tema complesso e di difficile approccio: Lei propende per una lettura dicotomica del rapporto tra bene e male o nella Sua opera a prevalere sono le zone d’ombra e le ambiguità, siano dei personaggi o dei fatti? Ad esempio, molti dei suoi personaggi sono individui ambigui e irrisolti: De Luca è un commissario che crede fermamente nel proprio lavoro ma poi scappa dinnanzi al pericolo per paura di morire; l’ispettore Coliandro è un onesto poliziotto pieno tuttavia di difetti e limiti, Lei lo definisce «un tipo onesto, ma abbastanza pasticcione, un personaggio ironico, tutto sommato». Bene e male sono dunque polarità nettamente distinte o si creano commistioni tra l’una e l’altra?
Il fulcro è per me sempre l’ambiguità. Nel romanzo giallo delle origini la dicotomia bene-male era netta: da una parte l’assassino (il male), dall’altra il detective (il bene), ovvero da un lato la persona che cerca e dall’altro la persona che nasconde, e in mezzo il morto. È chiaro che il buono è quello che deve risolvere il caso, mentre il cattivo è chi ha ucciso.
A me invece ha sempre interessato la dimensione dell’ambiguità. Ho iniziato a scrivere romanzi gialli, e continuo a farlo, con quelli che tecnicamente sono detti “detective istituzionali”, cioè i poliziotti. Non il giornalista che indaga, non Miss Murple, né la scrittrice di gialli. Mi interessa il poliziotto proprio per il potenziale di ambiguità che questa figura sprigiona. L’investigatore nel romanzo giallo è il portatore della verità, quindi virtualmente dovrebbe essere un personaggio del tutto positivo. Se però è calato in un contesto ambiguo, quale quello fascista, caratterizzato da una forte influenza della polizia politica, ecco che allora diventa il portatore legale della violenza dello Stato: se da un lato il lettore parteggia per lui perché scioglierà il mistero, dall’altro avverte un certo distacco perché non approva appieno quello che fa, o quello che è stato. Così è per Coliandro: un personaggio talmente pieno di difetti che non si vorrebbe essere lui.
A me piace l’ambiguità. Certo, il bene e il male mi interessano, ma nelle loro intersezioni, nella zona grigia in cui si rendono manifeste tutte le contraddizioni. Anche perché nella realtà è difficile discernere in modo netto il bianco dal nero. Raymond Chandler, creatore dell’hard boiled e di Philip Marlowe, diceva che sul criminale deve vincere chi criminale non è, il cavaliere senza macchia e senza paura. Il suo Philip Marlowe è così: è problematico, beve, fa confusione, però ha una assoluta dirittura morale. Poi arrivarono i giallisti, come James Ellroy e Giorgio Scerbanenco, che eliminarono il pregiudizio morale: su un criminale può avere la meglio anche un altro criminale, e ciò rende la narrazione ancora più interessante in quanto personaggi e vicende diventano ambigui e creano nel lettore uno spiazzamento: a chi essere fedele? al poliziotto David Klein di “White jazz” che sta risolvendo il caso ma è un corrotto killer della mafia, pur essendo un tenente della polizia, o al criminale?
Passando agli aspetti tecnici della scrittura, dalle Sue interviste e dai Suoi libri emerge un forte interesse per la storia, e nelle “Dieci regole per scrivere un buon giallo” consiglia di «Situare la storia in un’ambientazione conosciuta e credibile»: perché ritiene che l’ambientazione storica verisimile sia così importante?
È per me molto importante avere un’ambientazione realistica, concreta e riconoscibile, poiché abbiamo bisogno di avere un dato concreto a cui agganciare una vicenda che altrimenti risulterebbe del tutto assurda, a meno che non si voglia scrivere una storia fantastica, e in tal caso il patto narrativo con il lettore viene sancito sin da subito. Nel romanzo “L’isola dell’angelo caduto” per esempio ho creato una storia ambientata su un’isola fantastica, con fenomeni atmosferici di fantasia, ma l’intento era palese ed evidente. Ho sentito dire una volta da Pino Cacucci, scrittore di romanzi anche noir, che «noi siamo quelli che nominano le strade, e gli alberi». Perché? Se assumiamo ad esempio “I delitti della Rue Morgue” di Edgar Allan Poe, che inscena una situazione apparentemente insensata e priva di logica (vi compaiono tre morti orribilmente sbranati in una stessa stanza senza alcun accesso dall’esterno), il dato surreale è ridimensionato dal preciso riferimento spazio-temporale. La collocazione della storia in un luogo e in un tempo concreti fa sì che l’ambientazione, all’apparenza fantastica (il giallo è sempre qualcosa di fantastico e misterioso), risulti credibile.
Riguardo alle scelte di contesto, perché ha deciso di ambientare la serie del commissario De Luca ai tempi del fascismo, facendo del protagonista un personaggio celatamente ma chiaramente antifascista in contrasto con il regime? È forse nella rappresentazione di questo contrasto ideologico tra protagonista e contesto la volontà di drammatizzare un conflitto ancora in atto nel presente panorama politico nazionale? C’è nell’ambientazione storica un rimando al contesto politico attuale, alla maniera di Manzoni che denuncia la dominazione austriaca ottocentesca in Italia usando come espediente la critica alla dominazione spagnola del Seicento?
Ritengo che per scrivere una buona storia, una storia verisimile, un elemento non necessario ma senza dubbio raccomandabile sia l’ambientare i romanzi in un periodo storico diverso dall’attuale, che è un buon modo per raccontare il presente. Se descrivere il presente può essere difficile poiché poco chiari ne appaiono i meccanismi e si corre il pericolo di prendere una posizione sulla politica attuale rischiando di essere travisati, invece osservare le cose da più lontano permette di vederle con maggiore chiarezza. Così di solito vado a cercare un periodo storico nel quale riconosco le radici di certi meccanismi che sono quelli di oggi, per raccontare indirettamente la storia attuale. Quando ho scritto “Peccato mortale”, ambientato nella Bologna del 1943, ho operato esattamente in questa maniera: all’epoca la gente stava nascosta per via dei bombardamenti e io dovevo ricostruire quello scenario, non potendo raccontare di persone che se ne andavano tranquillamente a spasso per le vie cittadine con aria festosa, tranquilla e rilassata, affinché il lettore venisse trasportato nelle vicende di quel periodo e si sentisse realmente parte dei fatti. Per questi motivi reputo così importante l’impiego dell’ambientazione storica verisimile.
Contemporaneamente al filone del commissario De Luca, ha sviluppato la serie di Grazia Negro. Abbiamo molto apprezzato i presupposti a monte della serie: Lei riesce molto bene a descrivere le sensazioni di una donna: che lavoro ha fatto per riuscirci? c’è stata una ricerca per entrare nella mentalità femminile del personaggio? come ha proceduto in questo senso?
Sì, c’è stata un’attenta ricerca, ma ci sono riuscito solo fino a un certo punto. “Almost blue” mette in scena tre personaggi: un ragazzo cieco dalla nascita, un serial killer e un’agente di polizia (il mio investigatore istituzionale). È chiaro che la condizione esistenziale e le esperienze di vita di questi tre personaggi non coincidono con la mia: non sono cieco dalla nascita, non sono un omicida seriale e non sono una donna né un poliziotto. Nel momento storico che coincise con la stesura di “Almost blue”, non c’erano, nel giallo italiano, molte detective: sebbene l’accesso delle donne in polizia risalga al 1981, noi giallisti ce ne siamo accorti molto tardi. Anche per una questione di abitudine: eravamo soliti pensare al detective come a un uomo, un signore di mezza età che fuma sigarette dietro la sua scrivania in questura, molto maschio, molto virile. Poi mi è capitato da giornalista di incontrare tante investigatrici e ho deciso che il mio ispettore sarebbe stato una donna.
Per quanto riguarda la costruzione del personaggio di Simone Martini, il ragazzo cieco, mi sono documentato e ho facilmente potuto mettere in piedi un romanzo in prima persona incentrato sulla figura di un uomo cieco. Il serial killer l’ho messo a punto insieme a un amico psichiatra che ha esaminato il personaggio redigendo una vera e propria perizia psichiatrica appurando la bontà dei suoi tratti psicotici. Devo dire che, anche in questo caso, scrivere di lui in prima persona è stato abbastanza facile, preoccupantemente facile!
Con Grazia Negro non ci sono riuscito perché avevo a che fare con la quotidianità, diversa dall’eccezionalità del cieco o del serial killer. Il serial killer fa cose che nessuno fa; una donna fa cose che fanno tutte le donne. Quando andiamo a letto ci togliamo tutti gli stessi vestiti tranne uno: una donna ha il reggiseno. Come si toglie il reggiseno? In un milione di modi, ho scoperto! Grazia ha a che fare con una quotidianità diversa dalla mia, quella dell’essere donna. Così ho dovuto impiegare la terza persona, senza cercare di entrare nella sua testa, tentativo in cui avrei miseramente fallito. La sua descrizione è così il frutto di una minuziosa indagine sull’universo femminile in tutti i suoi dettagli quotidiani, compreso il ciclo mestruale. All’epoca insegnavo alla scuola Holden e ho dato un esercizio per le aspiranti scrittrici: descrivere il ciclo mestruale; poi ho rubato tutti gli aggettivi usati dalle scrittrici, riuscendo (anche se superficialmente) a entrare nella mente di Grazia. Ormai la conosco molto di più, da anni, e riesco a capirla meglio.
Ha citato la Scuola Holden: agli albori della sua carriera Lei ha curato diversi corsi di scrittura creativa: crede nell’utilità di questi corsi? Prima del suo esordio ha seguito un corso del genere? Ha trovato a sua volta dei maestri all’interno di corsi di scrittura creativa?
No, non ho mai frequentato corsi di scrittura creativa perché quando ho cominciato a scrivere non esistevano. Li si sentiva nominare a proposito degli Stati Uniti, ma in Italia questi corsi non erano ancora arrivati. Appartengo a quella generazione in cui, nel sentire comune, se eri italiano sapevi esprimerti e scrivere in italiano. Più tardi ho iniziato poi a tenere corsi, ad esempio alla Scuola Holden, e a frequentare scuole di scrittura, ma in veste di docente, razionalizzando e mettendo a profitto quello che avevo sperimentato da solo.
Per rispondere alla domanda, credo a un certo tipo di corsi di scrittura: quelli che si pongono come laboratori, al pari delle officine degli antichi pittori che non facevano altro che insegnare i trucchi del mestiere. Credo a questo tipo di corsi di scrittura, in cui i docenti raccontino come abbiano risolto problemi in cui un giovane scrittore può incappare, fermo restando che poi ognuno deve trovare la propria strada, la propria voce.
Dal momento della sua nascita, il romanzo giallo (per come lo intendiamo oggi, quello cioè inaugurato da Agatha Christie) si è presto differenziato per regione creando tradizioni nazionali tanto illustri quanto particolari, portate avanti da grandi maestri del genere: in Inghilterra Agatha Christie ed Edgar Wallace; in Francia il grande Simenon; negli Stati Uniti Raymond Chandler, Rex Stout e Van Dine; in Grecia al celebre Petros Markaris. Qual è la caratteristica peculiare del giallo italiano, se ne esiste una?
Più che di giallo italiano parlerei di noir mediterraneo. A differenza degli altri colleghi del mondo anglosassone (americani e inglesi) tratti salienti accomunano gli autori del Mediterraneo (italiani, francesi, spagnoli, e greci da una parte e algerini e marocchini, come ad esempio Driss Chraïbi, dall’altra parte).
Mentre il giallo anglosassone è molto incentrato sui meccanismi del genere, con l’obiettivo di scrivere in modo efficace e veloce, il noir mediterraneo è invece sempre stato molto attento alle implicazioni sociali, alle contraddizioni politiche e alla psicologia dei personaggi. Se nel noir anglosassone il detective della squadra omicidi ha al massimo un paio di caratteristiche interessanti, i nostri sono invece personaggi pieni di sfumature, come Maigret o Montalbano.
Nel giallo italiano, o mediterraneo che sia, si riscontra poi una particolare attenzione alla lingua, con influssi squisitamente letterari. Non è vero che i gialli sono scritti male, come spesso si pensa. Certi gialli sono scritti ‘male’, nel senso di una forse eccessiva corrività tipica di autori interessati più alla alla trama che allo stile. In questo, noi italiani, molte volte, facciamo anche troppa letteratura.
Inoltre in Italia abbiamo scontato un certo pregiudizio rispetto al giallo: per tanti anni ha rappresentato in Italia un genere di serie B, considerato para-letteratura. Parlando delle nostre città “rinettate dal sole”, e delle mogli dei commendatori, con le teste cotonate, che non fanno paura, Savinio diceva che non si possono scrivere gialli in Italia perché viviamo in un posto troppo bello. E invece noi abbiamo imparato che nelle nostre città “rinettate dal sole” possono accadere cose terribili, a volte saltano persino in aria le piazze, e i commendatori sono proprio coloro che le fanno esplodere. Quando abbiamo capito questo, il giallo italiano si è elevato assurgendo a una dimensione più propria.
Parliamo adesso di Lucarelli: crede che Lucarelli rimarrà e sarà citato in futuro tra i maestri del giallo italiano? Perché?
Sono sempre arrivato in momenti in cui si lanciava un genere. Non è vero che ho dato inizio al nuovo giallo italiano, come a volte mi dicono. Mi sono solo trovato in un periodo in cui una nuova ondata di scrittori si stava affacciando, tra gli anni ‘80 e ‘90, a questo nuovo modo di raccontare le cose, giallo ma al contempo anche politico, sociale, letterario. In tutta questa nuova ondata ho scritto un paio di libri che hanno funzionato di più, ma non ho inventato qualcosa che altri miei colleghi meno conosciuti non sapessero fare o non facessero già.
Stesso discorso per la tv: non ho inventato un modo di fare televisione, ho solo introdotto qualche elemento di novità, che in buona sostanza si riduce alla modalità di raccontare un caso di cronaca complicato, particolarmente controverso e oscuro, magari molto efferato, con voce tranquilla e fare pacato, frutto dell’abitudine di imparare e restituire tutto a memoria. L’effetto era di alquanta rigidità, poiché non interpretavo quello che dicevo, concentrato com’ero a rispettare l’ordine del dettato. Successivamente ho scoperto che questa modalità funzionava bene, soprattutto nel caso di vicende molto oscure, e ho proseguito su questa strada.
Vengo considerato uno dei primi podcaster true-crime italiani, ma non lo sono. Facevo un programma in radio che si chiamava “Dee giallo” il cui conduttore era Linus. A un certo punto gli è venuto in mente di staccare il programma e metterlo sul sito, anziché mandarlo in onda dal venerdì al lunedì, cosa che poi si è chiamata “podcast”, ma che non ho inventato io.
Riguardo al romanzo “L’inverno più nero” [Einaudi, Torino, 2021] Severino Colombo dalle colonne del Corriere della Sera disse che «Il nuovo libro di Lucarelli va oltre il genere; dentro non c’è solo il noir: c’è il dramma, c’è il racconto sociale, c’è il melò; c’è – soprattutto – il romanzo storico». Ha ancora senso, oggi, parlare di letteratura di genere?
Credo che oggi non abbia più senso parlare del romanzo giallo in termini di “genere”. E neanche per me ha più senso. O meglio, dipende da che cosa intendiamo. Ho scritto un solo giallo classico (con gli indizi e il colpo di scena), “Indagine non autorizzata”. Me l’aveva commissionato il Giallo Mondadori che allora (all’inizio degli anni ’90) seguiva lo schema tradizionale di investigazione dei romanzi di Agatha Christie. Già allora però il romanzo m’era sfuggito di mano perché quello di cui volevo scrivere era un periodo storico, il 1937. C’erano anche altri personaggi, e c’era pure la corruzione politica. Alla fine era questo il mio romanzo, seppur adombrato dal modello classico. Ciò che scrivo ha a che fare con la metà oscura del mondo, e in tal senso possiamo chiamarlo “giallo”. Non riuscirei a scrivere una storia d’amore lineare tra un uomo e una donna che non hanno alcun problema, si sposano, hanno dei figli e muoiono lo stesso giorno…
Un romanzo è ‘di genere’ quando lo scrittore intesse la trama e codifica la storia sulla base delle regole paradigmatiche del filone a cui si riferisce. Così è successo con “L’isola dell’angelo caduto” che ho iniziato a scrivere come un giallo classico con tutti gli elementi tipici: un cadavere e un poliziotto che indaga per capire che cosa sia successo. Poi però il romanzo è deviato, e sempre più spesso mi sorprendevo a introdurre fatti e situazioni che si allontanavano dai canoni del giallo, per rispondere ai quali i personaggi dovevano agire diversamente da come avrebbero fatto in un giallo classico, in un modo che reputavo però meno banale e più consono al mio gusto. Mi trovavo sovente a un bivio: distanziarsi dal genere seguendo le mie istanze estetiche o rispettarne i criteri scegliendo il topos più scontato? Ho optato per uno sviluppo più originale della trama, pur sapendo che mi avrebbe portato lontano dalle convenzioni del giallo classicamente inteso.
Il racconto “Sotto la luna” è quindi un giallo con elementi horror o un horror con una patina di giallo?
Dovrei definirlo un horror perché è una storia quasi del tutto orrorifica e sovrannaturale. Cerco tuttavia di fare a meno delle definizioni. Le definizioni servono a fornire un’indicazione, sono lo scaffale in cui puoi trovare quel libro. Per il resto noi narratori dell’inquietudine procediamo sempre allo stesso modo: raccontiamo un mistero senza svelarlo subito, sia che si tratti di un morto ammazzato, di un’entità sovrannaturale, o semplicemente di un portafoglio che è sparito ma che conteneva al proprio interno qualcosa di importantissimo. Quando raccontiamo una storia, noi autori del mistero siamo narratori di horror quanto di noir, anche se tra i vari generi ci sono piccole sfumature di contenuto.
In una puntata di “Mistero in blu” Lei dice che ci sono casi in cui «la realtà non ha nulla da invidiare alla fantasia del più diabolico romanzo giallo». Rispetto al rapporto tra realtà e finzione, ci sono nei suoi romanzi personaggi storici o vicende ispirate a fatti reali?
Mi è difficile rispondere in modo univoco. A un certo punto ho iniziato ad occuparmi dei cosiddetti misteri italiani, che è più corretto definire “segreti”. Sono i casi storici della nostra storia recente: la strage di Bologna, Brescia, Ustica, la mafia. Erano i meccanismi, quelli dei crimini italiani, che prima raccontavo nella serie del commissario De Luca.
Ho smesso di scrivere questi romanzi perché lavoravo in tv. Quando poi ho finito di fare tv, sono tornato al romanzo e ho ripreso a raccontare di questi intrighi in narrativa inserendoli nei miei libri. Tutto quello che avevo imparato studiando per i circa dieci anni di “Blu notte” (come i casi di mafia, la contiguità tra certa politica e certa finanza e la mafia), è tornato nella scrittura.
A riguardo, esiste nella mente del giallista Lucarelli un momento in cui il dato oggettivo smette di avere valore documentale e diviene il mero pretesto per raccontare una storia? Sembra che a volte, nel giallo, l’aspetto etico-morale passi in secondo piano e che il delitto misterioso valga ai soli fini narrativi per il peso specifico che ha nell’economia del racconto servendo esclusivamente da spunto all’avvio della narrazione; che, in altre parole, il fatto delittuoso agisca da semplice MacGuffin per imbastire una storia, più per il gusto di raccontare che non per riflettere sul concetto e i limiti della verità. Quanto sono importanti cioè le implicazioni etiche e morali in quello che scrive?
È sempre così. Anche quando mi occupavo di casi di cronaca, ad esempio in “Blu notte”, non era l’omicidio in sé che volevo raccontare. Allo stesso modo quando scrivo un romanzo, non mi interessa tanto chi sia il colpevole. D’altronde inizio a scrivere una storia senza sapere come finirà.
Nel mio primo romanzo, “Carta bianca” [Sellerio, Palermo, 1990], erano tre i personaggi sospettabili dell’omicidio da cui scaturisce il racconto, ma alla fine si scopre che il colpevole è un quarto. Questo per dire che si scrive una storia non tanto perché siamo attratti dal mistero ma anche perché ci piace soffermarci su tutto il contorno. Non per arrivare a un punto deciso a priori ma per narrare delle vittime e dei carnefici; non per parlare di chi uccide e di chi viene ucciso (che non sappiamo) ma per conoscere la mente e le emozioni dei personaggi, quello che è successo loro, chi erano, da quali misteri sono circondati.
Possiamo dunque asserire che le implicazioni etiche non sono il focus principale del giallo?
Dipende da che cosa intendiamo. Certo è che quando inizi a raccontare un mistero poi vuoi svelarlo. Il patto col lettore consiste nel prendere un treno che prima o poi giungerà a una stazione (la risoluzione del mistero), pur avendo sempre ben chiaro che l’importante è il viaggio stesso e non la destinazione.
Il personaggio al quale alla fine vengono messe le manette non è detto sia quello che se lo meritava di più: molto probabilmente rimangono fuori i mandanti, i cattivi molto più cattivi che il nostro poliziotto non può toccare. Il principio morale non sta nel fare i conti con una verità assoluta ma nell’indurre il lettore a riflettere su una situazione analoga e verisimigliante affinché egli possa tradurla nel proprio mondo e trarre le proprie conclusioni.
Al contrario, il romanzo d’inchiesta tenta di stabilire la verità storica, benché anche in questo tipo di letteratura il confine tra realtà e finzione stia divenendo sempre più labile: che cosa ne pensa?
Sono d’accordo. In passato mi sono occupato di vicende come il caso Pasolini e la strage di Ustica e ho pubblicato insieme con Massimo Picozzi “Scena del crimine” [Mondadori, Milano, 2005] seguito da “Mistero in blu” [Einaudi, Torino, 2008] tratto dall’omonimo programma televisivo, in cui venivano ripercorsi celebri casi di cronaca nera. Urge raccontare e continuare a raccontare queste storie finché non si risolvano e non si scoprano i colpevoli. E se gli espedienti della narrativa aiutano a rendere più vive le emozioni e il carattere dei personaggi e dei luoghi coinvolti tanto meglio.
Poi, il romanzo d’inchiesta tende a percorrere i tortuosi sentieri che conducono all’accertamento della verità storica con l’obiettivo di pervenire a conclusioni certe e veritiere in termini assoluti. Noi giallisti, invece, vogliamo primamente indagare ed esplorare i meccanismi della realtà: il mistero ci serve per fornire un contesto ai fatti della realtà che mettiamo in scena. Naturalmente nulla vieta che, facendo ciò, possiamo parlare di fatti storici o di attualità. Ma sono i meccanismi della realtà quello che ci interessa e su cui ci concentriamo maggiormente.
Bene, abbiamo finito. Lo confessi!
Devo confessare qualcosa? Non è mica facile…
Sto diventando vecchio. Ho un gran sonno. Una volta non ce l’avevo.
Manuel Omar Triscari
Angela Anconetani Lioveri
L’intervista è stata registrata nella sede della Biblioteca Civica di Rio nell’Elba il 17/7/2024.
Si ringraziano Marco Corsini, presidente della Giunta Municipale, Laura Casati, responsabile dell’Ufficio per i Servizi alla Persona, la Cultura e il Turismo, e Federica Andreucci, componente dell’Ufficio per la Cultura del Comune di Rio nell’Elba, nonché Beatrice Renzi, segretaria e assistente personale del sig. Lucarelli, per aver reso possibile questo progetto.
Si ringrazia inoltre Ivana Margarese e tutta la redazione di Morel per la gentile concessione dei diritti di riproduzione dell’intervista.