Un bagno di sangue alla colonia penale. Cinque prigionieri uccisi violentemente a “nerbate” dai secondini, istigati dalla direzione. Altri quattordici, malconci ma sopravvissuti al pestaggio, saranno presi in custodia dai tedeschi per concludere la propria amara esistenza nei pressi della spiaggia di Procchio, qualche giorno dopo, fucilati e seppelliti sommariamente.
Su Academia.edu ho appena pubblicato una ricerca dal titolo ‘Da Pianosa a Procchio: l’eccidio nazifascista dell’arcipelago toscano’, un paper storiografico per comprendere le cause del massacro più efferato compiuto in questi territori durante la Seconda Guerra Mondiale, nel caotico e complesso contesto italiano post otto settembre.
E’ possibile leggere o scaricare il paper al seguente link:
https://independent.academia.edu/EnricoManzi
Allego la prefazione della pubblicazione, dedicata alle diciannove vittime dell’eccidio che meritano di essere ricordate, nella speranza che il mio contributo possa interessare i lettori, i curiosi e gli appassionati; incrementare la ricerca della verità, promuovere la ricerca storica e onorare questo 25 aprile.
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Nell’autunno del 2019, mentre ‘scartabellavo’ tra i fondi e i fascicoli dell’Archivio di Stato di Livorno alla ricerca di carteggio utile alla mia tesi su Fascismo e Antifascismo all’Isola d’Elba, mi capitò sotto gli occhi la denuncia di un ex detenuto del carcere di Pianosa, il quale fu testimone di una violenta rappresaglia compiuta dai carcerieri, che portò alla morte di cinque prigionieri. Era il settembre del 1943 e ciò che accadde nella meravigliosa isola, oggi perla del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, rappresenta la brutale premessa del più conosciuto Eccidio di Procchio, l’efferata fucilazione di quattordici esseri umani per mano tedesca, il 14 ottobre seguente. Diciannove uomini in totale, strappati alla vita dalla follia nazifascista nel momento più complesso e incerto della storia d’Italia.
L’accusa fu inoltrata da Emilio De Luchini al Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale e all’Alto Commissariato Epurazione; era il febbraio del ’45, poche settimane prima della Liberazione del nord e agli inizi della ricostruzione sociale, politica e amministrativa della Nazione. L’esposto, lungo ben dieci pagine, è una minuziosa descrizione di una vicenda i cui fatti, dei quali avevo appena sentito parlare, mi sembravano contornati da un velo di leggenda e macabro mistero. La strage di Pianosa, al quale seguì quella di Procchio, mi colpirono e intrigarono tanto da cominciare una ricerca bibliografica e d’archivio, probabilmente incompleta ma di sicuro valore. Oltre ad alcune biblioteche e il citato Archivio di Stato di Livorno, su segnalazione consultai un faldone dell’Archivio Storico di Marciana e feci un salto a Lucca presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea, per visionare un documento relativo all’indagine del maggiore Smith Ruthven nelle funzioni della War Crime Commission: ulteriore tassello utile per comporre un imbrogliato puzzle, per trovare conferme o confutazioni alle varie tesi e argomentazioni esistenti.
Purtroppo chi fa ricerca e a maggior ragione sugli anni del Fascismo e della Guerra, ha sempre l’impressione di scavare in superficie o, peggio, la sensazione che molti documenti non vedranno mai la luce. Grazie al mio relatore, Professore dell’Università di Pisa e importante storico della Resistenza, il quale per aiutarmi consultò una collega che aveva fatto ricerche su Livorno, ho appreso che i fondi giudiziari e degli istituti penitenziari dell’ASLi (riguardanti quindi anche il territorio dell’Elba) sono inventariati ma inaccessibili, custoditi in un deposito di Perugia. Chissà cosa salterebbe fuori.
Ciò perché sicuramente ebbe luogo un processo, negli anni a seguire, presso la Corte d’Assise di Lucca. Ne parlano, come vano atto di giustizia, Raffaello Brignetti e Giulio Caprilli in ‘La Ritrattazione’, un libro del 1972. Il processo portò alla triste assoluzione degli imputati, tra i quali, posso presumere, parte del personale del penitenziario coinvolto nel bagno di sangue, citati uno ad uno nell’esposto De Luchini; certamente l’accusa fu parziale e non prese in considerazione le vittime di Procchio, poiché i responsabili nazisti, esecutori materiali del massacro, la fecero franca: «[..] Alcuni di essi avranno ormai trovato altrove la giusta sorte e alcuni saranno tornati ai propri paesi e alle loro famiglie senza mai dare segno a parenti e amici di quello che fecero..». Anche di questo parlerò lungo la trattazione, comparando la tesi difensiva degli imputati – i quali avrebbero agito per ripristinare l’ordine con il probabile attenuante dello stato di guerra e che i diciannove prigionieri linciati fossero i «caporioni di un ammutinamento» – con la tesi De Luchini e le informazioni tratte dal libro autobiografico di Mario Corona, detenuto presente a Pianosa ma prigioniero politico presso la diramazione del Sembolello. Tutto utile per il tentativo di comprendere se quella di Pianosa fu una ribellione domata, un ‘ammutinamento’ dei detenuti affamati e consapevoli del mutato quadro politico, o una rappresaglia premeditata, disciplinare e vendicativa, animata da odio e malvagità, nel momento in cui il Fascio si era ricostituito nella ancor più ignobile veste Saloina. E io sono propenso a credere, nella maniera più assoluta, a questa ultima versione.
La prima volta che sentii parlare dell’eccidio di Procchio fu leggendo quel meraviglioso insieme di contributi che è ‘Mucchio selvaggio’, storico sito web ricco di informazioni, nel quale sono conservati anche i numeri del periodico ‘Lo Scoglio’. Non ringrazierò mai abbastanza chi ne ha sempre curato la disponibilità al pubblico. Cercai in biblioteca il bel lavoro del prof. Gianfranco Vanagolli, ‘Cronache Elbane 40-45’, dove appresi altre informazioni. Poi lessi casualmente ‘La Ritrattazione’, scritto dai sopracitati uomini di lettere; un racconto romanzato di ciò che successe quel settembre degno di una sceneggiatura drammatica ed altamente emotiva per un film. Cosa c’era di vero nell’odissea dei quattordici galeotti fucilati sulla sabbia di Procchio? E cosa accadde agli altri cinque? Là, nei pressi di dove oggi mettiamo l’asciugamano per goderci il mare, i fratelli Lucca lasciarono questo mondo, abbracciati, orgogliosamente antifascisti, con coraggio e pugno chiuso, disprezzando il Duce e i loro carnefici. Quattordici giovani uomini, dai trenta ai cinquanta anni di età, che dopo i fatti di Pianosa chissà per quale motivo furono prelevati e massacrati dopo il supplizio della ‘marcia’ dal porticciolo di Campo nell’Elba fino all’altro versante. Chissà a quale sorte credettero di andare incontro, chissà quali furono i loro ultimi pensieri. Emanuele Fazio, una delle vittime, pregò probabilmente per i suoi bambini. Altri forse si disperarono per non poter più abbracciare i genitori, molti dei quali ricevettero la notizia della morte del figlio soltanto quattro anni più tardi. Oppure, chissà come finì dentro questa triste storia Eduardo Moramarco, egiziano del Cairo, anch’egli seppellito, riesumato e poi tumulato nuovamente per trovare la pace?
A Pianosa, l’inferno. Nerbate, violenza, morte. Gli aguzzini dei secondini, animati dalla malvagità del direttore Carlo Mazzeo, sfogarono rabbia e angoscia per la paura e l’incertezza del presente sui prigionieri, i quali chiedevano con insistenza ciò che chiederebbe chiunque in quelle circostanze: cibo e libertà.
l mio tentativo di ricostruire l’intera vicenda è parziale e non può essere diversamente. Ma due indizi fanno una prova. Giudico le accuse di Emilio De Luchini, avvalorate dai ricordi di Mario Corona, profondamente sincere, emozionanti e verosimili. Tuttavia, sono robuste anche le argomentazioni, corroborate sempre da documenti d’archivio – vere e proprie “richieste di aiuto” alla Regia Prefettura – a favore di una ribellione dei carcerati causata dalla scarsità di viveri. I prigionieri di Pianosa dopo l’otto settembre furono portati allo stremo e le razioni erano, via via che passavano i giorni, sempre minori. E la loro rabbia verso la direzione era comprensibile, visto che i fascisti dell’isola non sembravano patire la fame. In qualunque modo sia andata la vicenda, siamo di fronte a uomini in balia degli eventi, taluni che hanno perso la ragione, altri che sognavano un nuovo inizio e soprattutto desideravano giustizia. Tutti, con un rancore sistematico verso l’altrui ideologia o posizione; tutti, stremati dalla Guerra che ormai si protraeva da oltre tre anni e dalla ‘lontananza’ della piccola isola, posta al centro di un mare a dir poco ‘burrascoso’.
Enrico Manzi