Ernesto Ferrero, il ricordo dei Tappezzieri Marinesi

Un articolo dello scrittore scomparso dedicato alla compagnia teatrale elbana

La Compagnia dei Tappezzieri e Paolo Ferruzzi con questo suo articolo ricordano l’amico Ernesto Ferrero scrittore, Premio Strega 2000, Direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino e collaboratore della “La Stampa”, di “Repubblica” e “Corriere della Sera”.
“…Da che cosa nasce il piacere con cui, anno dopo anno, ritroviamo la compagnia dei Tappezzieri marinesi guidata da Paolo Ferruzzi? Credo dal fatto di partecipare a un teatro che ritrova la sua pulsione originale, primaria: quella di un rito condiviso, di un’allegra liturgia laica. Una seduta di gruppo in cui facciamo i conti con quello che siamo e quello che vorremmo essere, con le convenzioni sociali che ci siamo dati, con le nostre stesse recite di attori più o meno bravi, che vorrebbero sempre porgere di sé un’immagine migliore di quella reale.
Ci ritroviamo tutti insieme, residenti e turisti, a sorridere nel segno di Molière, a ragionare sulla commedia umana, a riderne senza moralismi e senza complessi di superiorità, senza gli sdegni asprigni della satira estrema. Nel segno di un artigianato pazientemente affinato negli anni, quale era appunto quello dell’ex-tappezziere del Re Sole che a un certo punto decide di abbandonare il suo vecchio mestiere per dedicarsi interamente al teatro.
Nella vita quotidiana fanno altri mestieri anche gli attori elbani, ma sanno calarsi nei panni dei loro personaggi con una adesione, un’empatia, una probità artigianale, appunto, che escludono il birignao dell’impostazione professionale, sempre un po’ affettata, un po’ troppo calcata ed esibita così da risultare fastidiosa. Anno dopo anno, si muovono nel repertorio via via messo a punto da Ferruzzi come nel loro ambiente naturale. C’è un filo rosso abbastanza evidente che lega le varie rappresentazioni, ed è quello che possiamo definire di un divertimento che non è fine a se stesso, ma sa arrivare al cuore nascosto delle cose e delle persone. Sono partiti dal Borghese gentiluomo per affrontare classici evergreen come Aristofane, “minori” opportunamente ricuperati come il toscano Pepoli, Lopez o De Benedetti, e soprattutto i maestri della commedia leggera francese, della pochade, da Hannequin a Courteline, da Feydeau a Poiret, la cui Cage aux folles gode da quarant’anni di una fortuna ininterrotta al di qua e al di là dell’Atlantico, a teatro come al cinema.
I meccanismi sono sempre gli stessi (scambi di persona, equivoci piccoli e grandi, apparizioni imprevedibili, agnizioni) ma funzionano a meraviglia proprio perché intercettano vizi pubblici e privati, sempre gli stessi da quando Molière li ha fissati in una galleria di caratteri universali: arrampicatori sociali, tartufi supponenti, malati immaginari, preziosi ridicoli…Tutti rimandano alla questione che continua ad assillarci, tanto più oggi, in cui tutto è virtuale, tutto è fiction: quella dell’identità, del volto e della maschera dietro a cui ci nascondiamo, di convenzioni sociali risibili, delle ipocrisie in cui siamo invischiati.
Anche ne La cage aux folles i personaggi più comici, quelli che sentiamo come insopportabili sono i genitori di Laurent, l’uomo politico in carriera e la sua degna consorte, i tartufi per eccellenza, campioni di una tipologia largamente diffusa. Certo, è facile ridere e sorridere degli altri, delle loro mossette, delle loro ciglia finte, dei rossetti, delle calze a rete e dei boa in cui avvolgono, dei loro spasmi di gelosia, di quel mondo apparentemente rovesciato che è soltanto lo sviluppo estremo di quello presunto “normale”. Ma c’è, al loro fondo, una sofferenza autentica, una pena, una ferita non rimarginabile, e la regia di Ferruzzi e la sensibilità degli attori le fanno affiorare. I personaggi a loro modo più liberi sono proprio quelli più consapevoli della finzione a cui sono costretti, e che recitano a viso aperto pagandone i costi sociali. Talché nella gioiosa liberazione finale, scandita da ritmi travolgenti e coinvolgenti, sono proprio i presunti normali a sentirsi finalmente liberati dalle maschere posticce che indossavano.
La messinscena di quest’ultima fatica dei Tappezzieri conferma quello che già sapevamo: non sono necessari effetti speciali e grandi mezzi per arrivare al cuore del pubblico. L’iperrealismo di certe rappresentazioni finisce per spegnere la fantasia, ogni spettatore è anche un co-autore che ci deve mettere del suo per sviluppare i suggerimenti che gli vengono dal palco. Alludere è sempre meglio che dire e spiegare tutto. Alle carenze del budget rimedia l’inventiva del Ferruzzi scenografo, con i suoi cambi a vista e l’efficacia delle porte girevoli. Gli attori lo assecondano senza incespicare su ritmi molto sostenuti, rispettando il gioco degli incastri, il fuoco di fila dei dialoghi. Lo sappiamo: l’inventiva italica meglio risplende proprio quando si ingegna a utilizzare gli ingredienti semplici che ha sottomano, dalla pizza alla ribollita e alla panzanella. Ferruzzi e i suoi bravissimi Tappezzieri ci hanno così consegnato un altro gustosissimo “piatto povero”…”

Una risposta a “Ernesto Ferrero, il ricordo dei Tappezzieri Marinesi

  1. Giuliana Rispondi

    Un signore nel vero senso della parola ! L ho conosciuto , ammirato e stimato. R.I.P.❤️

    1 Novembre 2023 alle 19:31

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