Pescato in rete, sui social, questo racconto del longonese doc Fabrizio Grazioso è degno di impreziosire i momenti di quiete e di relax che solo a Ferragosto all’Elba si potevano trovare, tanti anni fa. Leggetelo e sognate anche voi ad occhi aperti, navigando nei ricordi…
Il maestrale aveva spazzato via le nubi, reso terso il cielo e azzurro il mare. Più colorato del nome che un paese – il nostro – s’era scelto nel ‘47, con gran rammarico per i refrattari sostenitori del caro, vecchio “Portolongone”. La nave stava per entrare nel golfo. A scortarla, a dare il primo benvenuto ai villeggianti affacciati sul ponte, un esercito di gabbiani. Curiosi, sfacciati, impertinenti. C’era attesa per quelle ferie d’agosto sullo scoglio. Lontani dal caos metropolitano, da grattacieli di cemento e dai miasmi dell’industria. Qualche pescatore, di ronda verso Focardo, pareva non essersi ancora abituato al tran tran estivo. Preferiva l’isola d’inverno: cinta da onde e silenzio. E così, ogni santo giorno, volgeva lo sguardo al traghetto e ammoniva col pensiero il vocio indefinito e profano che si levava da poppa. La Fortezza, sentinella del mare, dominava la scena, sebbene le vecchie mura si fossero ormai abbandonate dall’abbraccio dell’edera e del lentisco. Adesso è un carcere, sussurrava qualcuno, lasciandosi poi andare ad una riflessione giuridica che sfumò come un acquerello sotto la pioggia alla sola vista del paese, d’un paese che sembrava sorgere direttamente dal mare. Da un bar della piazza, quello agghindato con con un’insolita schiera di ombrelloni hawaiani, una radio regalava due note alla clientela. Suonava Battisti, il lato B del vinile. Sulla panchina, sotto al platano, le solite donnette aspettavan che suonasse il terzo per la messa dell’Assunta. In una semplicità snocciolata pure agli ‘avventurieri’ c’era tutto quello che più d’ogni altra cosa mi sarebbe garbato trovare. L’approccio genuino, con un italiano ‘aronsicato’, fermo alla terza elementare e al candore di suor Margherita, non avrebbe dispensato dal garbo nei gesti e nelle parole. Per i più fortunati c’erano storie lontane, perse nel cuore dell’Ottocento. Storie di fame e carestia. Di quando nel salotto dell’Elba più che gozzi trascinati a riva non avresti visto, di quando quintali d’uva salpavano per “la Merica”. Portandosi dietro speranze e desideri. Sogno e miraggio. E chi avrebbe potuto spiegar loro, topi di città, la “Tratta a fuoco” prima ancora delle lampare, la leggenda del Dondo, lo spiritello delle case, retaggio della dominazione iberica. D’una Madonna Nera che dispensava grazie e se ne stava solinga in una valle di diaspro. In un lembo di terra come questo c’era vita, storia viva, da raccontare. Non solo ristoro, pesce e belle spiagge. Il “foresto” rimase fermo, stupito a far incetta di ricordi. Al tramonto, dalla terrazza del suo albergo, seguì intere famiglie rientrare delle ultime spiaggiate. Riconobbe in quei sorrisi la bellezza della gioventù. Di quel poco che bastava per essere felici. Si presentò allora, in un’assoluta semplicità, il vero significato di “essere paese”, famiglia senza legami di sangue; D. promise a sé stesso di ritornare. E così fu… quasi vent’anni dopo. Tutto era cambiato, in apparenza, ma non l’amore, non la radio che continuava a dire “parlo, rido e tu, tu non sai perché”.