L’8 marzo si celebra la Giornata internazionale dei diritti delle donne (fondata nel 1909), e dal 1999 ne è stata aggiunta un’altra, quella per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre). In pratica le due ricorrenze sono dedicate la prima a ricordare che le donne sono persone e quindi dovrebbero godere dei diritti di cui godono i cittadini in una democrazia (diritto al lavoro, alla salute, all’autodeterminazione), e la seconda a sottolineare che tra questi diritti c’è anche quello di non farsi massacrare. Tuttavia in questa sede vorrei concentrarmi non tanto sul senso di queste ricorrenze, che è già noto a tutt*, quanto sulle azioni da promuovere affinché queste non siano più necessarie.
La cosa più urgente ci sembra sia accompagnare gli uomini verso l’emancipazione rispetto a un modello di maschilità ancora troppo legato alla violenza e all’iniquità. Questo non significa stigmatizzare gli uomini in quanto categoria, bensì riconoscere che certi comportamenti connessi con una idea malsana di virilità sono incompatibili con il vivere civile e che è necessario lavorare insieme per costruire una società che abbia rispetto della maggioranza, incredibilmente trattata come una minoranza (le donne in Italia sono il 51% della popolazione).
Nel saggio Quanto ci costa la virilità, scritto da Bersani Franceschetti e da Peytavin (Il Pensiero Scientifico), si dimostra che lo Stato italiano spende quasi 99 miliardi all’anno (cioè tre volte la manovra fiscale del 2022) per il contrasto alla mascolinità tossica (gli uomini sono la quasi totalità degli evasori fiscali, degli spacciatori, dei carcerati, degli stupratori, dei responsabili di incidenti stradali mortali, degli assassini). Ma sarebbe scorretto sostenere che gli uomini siano così “per natura”, anche perché invece facciamo esperienza tutti i giorni di uomini amorevoli e onesti. Però il modello educativo dominante tollera la violenza nel caso in cui a compierla sia un maschio, già da piccolissimo, e guarda invece con diffidenza l’esercizio dell’empatia, ritenuta “poco virile”.
Peraltro gli uomini stessi si sentono lontani dal modello di maschio “vincente”: uno studio condotto da Gillette nel 2019 per esempio ci dice che il 79% degli uomini non si riconosce nei modelli machisti proposti dalle pubblicità. Una maschilità positiva dunque esiste, ma non trova spazio nelle rappresentazioni e nei modelli; è una maschilità nonostante.
Se in questi anni (per fortuna) si è lavorato molto sui modelli femminili (professionali, fisici, esistenziali), lo stesso non si può dire dei modelli maschili. La sensazione è che gli uomini siano ancora pochissimo coinvolti in percorsi di emancipazione, non solo per quanto riguarda le loro compagne/figlie/sorelle, ma anche e soprattutto per quanto riguarda loro stessi. Le prime timide avvisaglie ci sono, ma siamo ancora lontani da un ripensamento sistematico nella direzione di un modello di maschile più elastico. Tuttavia aprire lo spazio ad altri tipi di maschilità significa non solo facilitare l’ingresso a pieno titolo delle donne nel consesso democratico rimuovendo molti ostacoli (dal mansplaining al soffitto di cristallo), ma implica anche spingere gli uomini che non si riconoscono nei modelli violenti a promuovere attivamente il proprio punto di vista senza vedere messe in discussione la propria identità e la propria virilità.
Per riconoscere i diritti delle donne dunque è necessario lavorare sulla decostruzione dei modelli maschili e aprire lo spazio a un confronto onesto sui comportamenti che vogliamo premiare e su quelli che invece riteniamo inadatti alla convivenza civile. Le azioni sollecitate da ricorrenze come quella di oggi in realtà non riguardano i generi, bensì i valori in cui complessivamente ci riconosciamo come società e che necessariamente dobbiamo promuovere insieme.
Marzia Camarda
*Founder e Presidente Sidera srls
Founder e amministratrice Inkodex srl
Consigliera di Piccolindustria con delega all’editoria (Unione Industriali)
Adriana Rigutti
Intervento perfetto, come tutti quelli che pubblichi e che seguo con interesse. È un problema sociale, ma anche di cultura e puericultura: a un’amica che educa il figlio secondo i modelli che auspichi, le insegnanti dell’asilo in cui lo ha iscritto le hanno detto che “è troppo passivo” e che se gli altri bambini lo picchiano lui “deve svegliarsi” e sapersi difendere. Non sono i bambini violenti in errore, da educare, ma lui, che non si adegua alla violenza. Finché ci saranno educatrici così, la strada rimarrà lunga. E in salita.
10 Marzo 2023 alle 13:38
Stefano
Profonda e attenta analisi perfettamente condivisibile.
8 Marzo 2023 alle 18:19
Rosaria
Complimenti per il lavoro fatto e per quello che ancora ci sarà da fare….Brava Dottoressa Marzia sono persone come lei che ….. nonostante i miei tanti anni mi danno ancora la speranza che tante cose possono cambiare per le future generazioni .
Buon lavoro.
8 Marzo 2023 alle 13:47