Portoferraio

“Sulla pittura di Flavio Orsi”. Recensione di un artista

di Angelo Airò Farulla

Flavio Orsi è uno degli ultimi, veri pittori rimasti a Portoferraio. Autodidatta, più che da una certa scuola paesaggistica otto-novecentesca – pure da lui seguita con amore e ammirazione – la sua opera sboccia dalla serena, solitaria, quasi religiosa frequentazione di alcuni luoghi prediletti. Non tutto poi, di quello che Orsi sente al cospetto del paesaggio, finisce sulla tela (nel suo studio ci sono quadri riusciti e non riusciti, tutti parte dello stesso percorso o progetto – segreta aspirazione a una “rivelazione privata”). Tra le tante sue “prove”, a metà tra l’opera d’arte e lo studio del mestiere, ho visto un crinale diagonale di campagna, dipinto con una misura che sa di selvaggio; un’esercitazione coloristica satura di verde permanente, di bruni morelli annidati nelle chiome degli alberi, nella quale, tra le radici e lo stacco del cielo, corrono “piccoli tocchi preziosi di colore” che vanno dal violetto all’azzurro, inseguendo, classicamente, l’aria che si allontana. Iniziò a dipingere da giovanissimo. Debuttò nel 1978 in una collettiva allestita sotto l’arco del Mercato Vecchio a Portoferraio (insieme a lui c’erano Marcello D’Arco, Vittorio Eyber, Giovanni Muti, Sergio Solari). Paolo Bandinelli lo indirizzò verso lo studio dal vero del paesaggio isolano, e “mi schiuse la via verso i segreti della pittura”, come mi dice lui stesso. Nel 1988 venne chiamato da Giancarlo Castelvecchi per la rifondazione del Gruppo Artisti Elbani, storico gruppo di pittori antimoderni sorto all’isola nel 1946 sotto la guida di Carlo Domenici. Espose a Procchio insieme allo stesso Castelvecchi, Nello Francesetti e Mauro Marinari nella XXXIV Mostra del G.A.E. In occasione della venticinquesima mostra, i quattro dipinsero insieme l’indicazione toponomastica (ancora visibile, seppure un po’ sbiadita) della Piazzetta degli Artisti a Marciana Marina, aggiungendovi il disegno di una tavolozza.
Negli anni successivi fu invitato a esporre da Castelvecchi, insieme ad altri pittori elbani, al Circolo della Stampa e alla Borsa del Turismo di Milano; e poi fu la volta di altre collettive a Reggio Emilia e a Montecatini. Ha frequentato, a Portoferraio, lo studio di Franco Cigheri e, a Firenze, quello di Rodolfo Marma e di altri pittori che allora risiedevano dalle parti di Piazza Savonarola. Nel 1994 fece parte del gruppo Artisti all’Elba, del quale era presidente Gonni che, scrivendo di lui nel 1990 sul settimanale Lisola, in occasione di una sua mostra presso la Galleria La Soffitta, lo aveva definito “innamorato della pittura”, dedito a un “appassionato studio”, e ne aveva elogiato i “piccoli formati”, risolti “con molto impegno e buoni risultati”. Nel 2011, su Lo Scoglio, Gianfranco Vanagolli ne tracciò un sentito, lirico ritratto.
Oggi F. Orsi presenta una serie di olii, acquerelli, sanguigne e carboncini con lumeggiature di biacca; opere quasi tutte dipinte en plein air, modo che ha riscoperto in questi ultimi tempi (prima, c’era l’andare in giro sempre col quaderno in tasca, nel quale riversava appunti in bianco e nero, annotando il colore delle cose, intermezzando gli schizzi con meditazioni). Per mesi si è tirato da solo la tela grezza di lino sulle tavolette. Poi si è costruito la cassetta dei colori, ha modificato il cavalletto di ferro e ha infine ripreso la via dei boschi, vivendo “il profumo delle ginestre, il colore variegato del mare, delle terre rosse, delle ocre” (G. Castelvecchi).
Orsi è un pittore di radici e di luoghi. Come detto, ci sono punti d’osservazione che predilige, sui quali ritorna più volte, sempre umilmente insoddisfatto del risultato, attratto da un’ulteriore, misteriosa possibilità di redenzione.
A volte la sintonia è in opera.
Un giorno di primavera si ferma alle Prade. Tirava vento; il mare rimescolato, terreo, tendeva al verde. “Mi sentivo forte”, mi dice. E allora l’inquietudine della Natura che monta col libeccio trapassa nel pittore che con questa quasi combatte, per mantenerne un segno, offrirne un’immagine placata. Non ne conosco il titolo, ma non importa. Sotto l’intonazione fredda del dipinto si cela una geometria compositiva, dominata da un cerchio che fa da fuoco centrale, spirale da dove entra il giro della luce. La stessa impostazione si riaffaccia tra i tronchi di un bosco fissato sulle pendici del Capanne, ricalcanti l’ordine di una struttura presente, percepita, eppure assente e come invisibile nella sua stessa, sfuggente insistenza. È il segno, questo, di una natura non sufficiente; segno che qualcosa, nel fare, tende naturalmente verso un’ideale, astratta regolarità alla quale appoggiarsi per non restare ciechi, direi, trattandosi qui di pittura. È la spiritualità della tecnica. Un’eternità temporale, forse definibile come testimone del paesaggio; strumento di quello stesso paesaggio (elbano, o no) amato e vissuto dai nostri padri e dai nostri antenati, ombre che passano il testimone, appunto, e che come testimoni stanno lì, a guardare quel che facciamo e che siamo; e forse è proprio questa loro estinta vita, mai chiusa definitivamente, a permetterci di fissare ancora quell’impalcatura nascosta che imposta – sulla tela o nel ricordo – le immagini più care.
Nella galleria di Orsi ce ne sono diversi, di dipinti presi da Le Prade. È uno di quei luoghi che ancora può ricordare com’eravamo nell’Ottocento, quando altri pittori venivano a dipingere gli stessi scorci; un luogo
dove hai la campagna alle spalle, il mare davanti, il Volterraio di fianco – irta piramide verso la quale il pittore non può non voltarsi.
Scorrendo sullo stesso versante, Orsi realizza quadri immobili, semplici, sempre pendenti verso l’interiorità. L’ultimo lembo di terra percorribile in fondo a San Giovanni, preso in maggio-giugno, col muro bianco a calce sulla destra che fa tutto il quadro. Poi, dalla parte opposta, Portoferraio in inverno, le due alture della città vecchia addormentate sotto il sole. Le fortezze medicee e il paese sono impressi a blocchi non propriamente a fuoco, impastati dalla luce: è un’ascetica, non severa, del paesaggio, che racconta di tempi mai vissuti eppure noti alla memoria. Voltatosi verso le alture alle sue spalle, compie poi un non-finito, tributo alla pura sensibilità dell’essenziale, del possibile.
Percorrendo altri versanti dell’isola, ecco la scogliera delle Viste, anche questo un soggetto riproposto più volte. La Colombaia a macchioni freddi, di settembre, con le ultime luci sotto l’ultimo scoglio che ormai non chiude più la grotta come una quinta, collassato sotto l’onde prepotenti di alcune navi troppo veloci. Poi una sintesi luminosa e grumosa di Capo Bianco. Un vecchio tramonto a Sottobomba. Ho visto ancora, chissà dove, delle bianche scogliere sotto il cupo della gariga saldarsi con un mare d’eurite, riflesso di un cielo giallo e infreddato. Un’insenatura dell’Enfola, con la luce mattutina che tocca le montagne sullo sfondo. Un’atmosfera tenera e rosata che si accoccola sulla riva di Campallaia in un pomeriggio di giugno. Un’inquadratura di Laconella, che guarda alla boscosa indifferenza della macchia.
Sono olii, questi, spesso fatti sopra una preparazione rosa-arancio che li rende pastosi, antichi. Di un suo quadretto – non ricordo più quale sia – Flavio mi dice: “Non lo so come mi è uscito, mi è venuto così.” Forse l’ha dipinto davanti a casa. Ci sono vari canneti, lassù dove vive, sui quali più volte si è soffermato. Presi in febbraio-marzo, affidati a una scabra preparazione bianca della tela, appaiono polarizzati, sofferti. Un ciuffo di canne sta a guardia di una stradina che s’inoltra nel bianco della roccia, verso un gruppo di ulivi sparsi sulla collina. Le ombre si bagnano d’azzurro. L’immaginazione fa i conti con la crudezza della realtà illuminata. L’istinto del pittore è attratto, nello stesso momento, dall’evidenza della visione e dalla memoria di altri dipinti di altri pittori che lo guidano nell’opera, oppure lo fanno deragliare. Mosso da altre nostalgie, fu forse lo stesso dettato che lo condusse, anni fa, verso la composizione dei Notturni, specie quelli della darsena di Portoferraio, spigolati di riflessi, marine brune di terra nelle quali talvolta il pittore si lasciò sprofondare, nell’incanto immemore di un istante già trascorso.
Angelo Airò Farulla (in occasione della personale di Flavio Orsi, Portoferraio, 28 agosto 2022)

Una risposta a ““Sulla pittura di Flavio Orsi”. Recensione di un artista

  1. Mara Lenzi Rispondi

    Bellissimi quadri rispecchiano la tua anima pura e gentile

    28 Agosto 2022 alle 18:26

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