Buon compleanno Porto Longone, oggi Porto Azzurro

L'arrivo degli spagnoli si riconduce all'8 maggio 1604. Il racconto di Fabrizio Grazioso

Una rappresentazione d’epoca della baia di Longone

Buon compleanno Porto Azzurro, o meglio Portus Longe, come gli antichi definivano la rada che va Punta Focardo a Mola, fino alla Punta dello Stendardo.

Per quanto riguarda Porto Azzurro la ricorrenza a dire il vero è fissata al 1947, quando, con insolita preveggenza per il turismo che arrivò solo 30 anni dopo, l’allora sindaco richiese al Presidente della Repubblica di cambiare nome al paese, dato che il nome di Porto Longone era associato alla colonia penale. Dunque settantacinque anni fa fu scelto il nome di Porto Azzurro, in virtù del mare particolarmente limpido dell’allora golfo di Longone.
A raccontare la storia della nascita del toponimo di Porto Longone ci ha pensato invece Fabrizio Grazioso, giovane studioso e fine narratore delle vicende longonesi, che la riporta in maniera precisa e colorita un post sul suo profilo facebook. Eccola riportata qui di seguito.
“Quattrocentodiciotto candeline: un soffio indefinito, ed eccole spente. Poi, in quel fumo… la storia. La nostra storia.
Non potremmo certo sapere l’ora esatta in cui le dodici galee spagnole diedero fondo nella rada di ‘Portus Longe’, il momento in cui la volontà del Re si fece mattone, poi calce, per definire con metodo un efebico, grezzo “Stato dei Presidi”. Vero è che nella semioscurità d’un anonimo 8 maggio 1604, in un’alba che non si sarebbe dovuta contraddistinguere dalle altre, perlomeno non in quel modo, i vessilli d’una “Cattolicissima Spagna” sfregarono le acque di Mola, facendo propria la terra, il suolo.
E per tutti, dai vicini di casa al Granduca di Toscana, fu grande la sorpresa, indigesto lo smacco; d’altronde lo avrebbero dovuto sapere: col Trattato di Londra del 1557 (siglato da Filippo II) la possibilità che l’Elba fosse munita d’avamposti “iberici” giaceva scritta nero su bianco.
Prese il via la costruzione. Per le linee essenziali, due anni d’estenuanti lavori: modellare la roccia, scavarla, non è cosa da poco.
Il complesso pentagonale, che si rifà a quello d’Anversa, pareva inespugnabile: doppia cinta muraria, bastioni colossali, camminamenti coperti, fossati e palizzate. Anche lo scoglio che placido s’abbandonò alla Corona spagnola fu profanato: decine e decine di gallerie sotterrane presero il largo oltre le mura, diramando le cavee radici sino alle campagne, alla spiaggia. Adesso, sfigurate dalla memoria popolare, giacciono nell’oblio, e quel rifugio che prima era serbato alla popolazione è monopolio di topi, ragni e innocue serpi. Le garitte, sferzate dai venti, padroneggiano la costa. Il vecchio campanile di San Giacomo domina impassibile il circondario, malinconico di quando, gioioso, trillava per la festa patronale e di quando, prudente, affidava messaggi segreti all’artiglieria (come per l’assedio del 1799).
Fu così che agli albori del XVII secolo la cittadella divenne grembo del paese; lo è stato per anni, quasi cento. Ma per evitare l’intransigenza d’alcune regole (come l’impossibilità d’uscire dal tramonto all’alba) la gente prese a stabilirsi in marina, lungo la spiaggia, ove già esistevano una chiesetta dedicata alla Madonna del Carmine, un piccolo borgo di pescatori napoletani e genovesi, un Ufficio di Sanità Marittima, un “Arsenale Regio” e qualche magazzino. Nacque, poi, la Guardiola: la prima “caserma extra-muros”. Un presepe di casette seminate qua e là tinse la parete rocciosa che scendeva, erta, dal Presidio. Il germe urbanistico contagiò un po’ tutto; archi, volte e caranchioni: in poco meno di trent’anni il prete c’aveva già sul groppone una cinquecentina d’anime. I religiosi del Forte, con un migliaio di soldati e la cura dell’ospedaletto, non eran certo messi meglio.
Da Monserrato, invece, continuo l’andirivieni. La fama di quel santuario nato per volontà di Joseph Ponçe Y Léon (primo governatore) si diffuse presto in tutta l’Elba… e anche un po’ oltre. Ai romiti, per vivere, bastava poco. Esaurite le funzioni, con un latino sgangherato, l’unico momento di pace, a mo’ d’ascesi, l’avrebbero avuto in cima a quel monte, in una grotta, a cercar “contatti” col proprio sé divino. Poi, al vespro, di nuovo al sole, a inquadrar l’incredibile panorama: la Fortezza fumante, per i fuochi; lo scalpitio della cavalleria, di ritorno da Rio; la processione di donne che se n’andava a Barbarossa, al “lavatoio”, e quei lontani galeoni neri in rotta verso Longone. Reclusa nella stiva, magari in due o tre botti di vino, sfolgorante, la modernità. A quella, l’eremita, non c’era abituato!”

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