Il vino nasce dalla terra e ne porta con se l’impronta che racchiude nel calice il racconto di un territorio. Talvolta nella terra si evolve, come nel caso dei vini prodotti in anfora. L’undicesimo anniversario della collaborazione tra l’azienda Arrighi dell’isola d’Elba e Artenova dell’Impruneta, è l’occasione per una riflessione sul rapporto tra la terracotta e il vino, in particolare nell’esperienza del produttore Elbano. La particolare vocazione enologica dell’isola dell’Arcipelago toscano è documentata da Franco Cambi e Laura Pagliantini dell’Università degli studi di Siena, co-direttori dello scavo archeologico della villa rustica romana di San Giovanni, nella rada di Portoferraio. Gli scavi, infatti, hanno portato alla luce delle anfore vinarie e in particolare i dolia defossa: grandi vasi interrati che contenevano ciascuno più di mille litri. I cinque doli ritrovati potevano contenere circa 6.000 litri. La scelta dell’anfora, dunque, è stata naturale per Antonio Arrighi, non solo in termini di sostenibilità e di “simbiosi” con la terra, l’anfora in terracotta infatti è un materiale naturale che permette di mantenere il profilo identitario del vino al massimo delle sue potenzialità e di interpretare il territorio creando un prodotto fedele alle caratteristiche del terroir, ma anche perché è un richiamo diretto alla storia enologica dell’isola. Guardare al passato per interpretare il futuro, è la caratteristica che unisce queste due realtà, l’azienda Arrighi, viticoltori alla quinta generazione all’isola d’Elba, salita alla ribalta delle cronache internazionali per un esperimento “enoarcheologico“ che ha fatto il giro del mondo: ripercorrere dopo 2500 anni, le varie fasi della produzione di un vino antico e la Fornace Artenova, storico produttore di terracotte artistiche che dal 2008 applica la sua arte al mondo del vino, all’Impruneta, luogo simbolo del cotto italiano fin dal Rinascimento. La vinificazione in anfora è una pratica che risale alla preistoria, i vasi di terracotta sono infatti i più antichi contenitori enologici di cui si abbia conoscenza, usati sia per la vinificazione che per la conservazione. Il recupero di tecniche come la vinificazione in anfora permette un ritorno alle origini: riscoprire i sapori e i profumi antichi dei vini. Proprio per questo la terra, insieme al mare, sono protagonisti nella realizzazione di Nesos, il vino marino: un viaggio indietro nel tempo per scoprire i segreti di un vino mitologico. Dopo l‘esperimento enologico realizzato dall’Azienda Agricola Arrighi in collaborazione con il Professor Attilio Scienza, Ordinario di Viticoltura dell’Università degli Studi di Milano e Angela Zinnai e Francesca Venturi del corso di Viticoltura ed Enologia dell’Università di Pisa, Nesos, il vino marino, esce sul mercato con una produzione limitatissima di 240 bottiglie numerate, già andate esaurite. Il vitigno utilizzato è l’ansonica, le uve sono state immerse in mare per 5 giorni tra i 7 e i 10 metri di profondità, protette in ceste di vimini. Questo processo ha consentito di eliminare parte della pruina superficiale, accelerando così il successivo appassimento al sole sulle cannucce, preservando l’aroma del vitigno. Il sale marino durante i giorni di immersione, per “osmosi” penetra anche all’interno, senza danneggiare l’acino. Il successivo passaggio delle uve avviene in anfore di terracotta con tutte le bucce, dopo la separazione dei raspi, senza aggiunta di lieviti selezionati, solfiti e senza alcuna stabilizzazione. La presenza di sale nell’uva, con effetto disinfettante, ha permesso di non utilizzare i solfiti, arrivando a produrre, dopo un anno di affinamento in bottiglia, un vino estremamente naturale, molto simile a quello prodotto 2500 anni fa nell’isola di Chio, piccola isola dell’Egeo orientale, che faceva parte di quella ristretta élite di vini greci definiti da Varrone “vini dei ricchi”. Il rapporto tra il vino e le anfore è antichissimo, come spesso racconta il professor Attilio Scienza. La prima testimonianza di vinificazione nella terracotta risale a circa 8 mila anni fa (6 mila anni A.C.) in Caucaso. Oggi questi cocci rappresentano delle testimonianze fondamentali per ricostruire la storia del vino e del suo commercio, anche perché ogni territorio aveva la sua anfora che indicava la provenienza del vino stesso, ma soprattutto il suo valore. Gli abitanti di Chio, consapevoli della qualità del loro vino, per difenderne l’identità chiesero al famoso scultore Prassitele, di disegnare un’anfora da utilizzare per il commercio del loro vino. Un’operazione di “branding” ante litteram che contribuì ad alimentarne il mito. Da un’intuizione di Laura Zuddas, enologa dell’azienda Arrighi, si è diffusa l’usanza di proporre in degustazione la stessa tipologia di vino che però si diversifica per vinificazione ed evoluzione: in anfora e in barriques. Un sistema empirico per far sperimentare in prima persona la differente microssigenazione del vino.
cultura
Anfora e Vino: nel calice il racconto di un territorio
Una tecnica millenaria, sempre più attuale tra naturale e pratica sostenibile
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